Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/02/2019, a pag-22, con il titolo "Il mio film è la ricerca di un'identità" l'intervista di Ada Treves al regista israeliano Nadav Lapid, vincitore del primo premio.
Il film non è ancora uscito sui nostri schermi, il che ci esime dal darne un giudizio. Ma dall'intervista di Ada Treves al regista e dalla breve cronaca di Fulvia Caprara "la difficile rinascita di un uomo deciso a chiudere i conti con le proprie radici. Il massimo trofeo della rassegna, accolto dalla platea degli addetti ai lavori tra dissensi e stupore, sancisce un verdetto discutibile, con varie incongruenze, quasi a sottolineare la fase di transizione che la Berlinale sta evidentemente attraversando" il film appartiene a quel filone che potremmo definire 'critico', come lo sono quasi tutti i film israeliani che suscitano interesse fuori da Israele. Ricordiamo che il Ministero della Cultura di Israele finanzia la produzione di "tutti" i film, indipendentemente dal contenuto, il che va ad onore del criterio altamente democratico adottato.
Riparleremo del film quando verrà proiettato in Italia.
Ada Treves Nadav Lapid ( destra Juliette Binoche)
BERLINO- Rabbioso, irritante, affascinante, doloroso, dolente, fastidioso, ironico. Non c'è scelta, per raccontare Synonymes, il film diretto dall'israeliano Nadav Lapid che ha conquistato l'Orso d'oro alla Berlinale bisogna seguire l'esempio del suo protagonista. Yoav, un sorprendente Tom Mercier, alla fine del servizio militare decide di lasciarsi alle spalle un'identità troppo pesante e di diventare francese, usando come primo e più forte stratagemma l'abbandono della lingua materna. IL REGISTA trionfatore alla Berlinale racconta gli aspetti autobiografici del suo "Synonymes" II mio film e la ricerca l un'identità" Rinunciare all'ebraico significa anche conquistare ogni parola in una nuova lingua in quel francese che già parla, ma che cerca continuamente di arricchire di nuovi vocaboli, di quei sinonimi, appunto, che mormora ossessivamente per tutto il film. Compare a Parigi dal nulla, zaino in spalla, in fuga da se stesso, anche se questo lo si capirà solo lasciandosi trascinare nella spirale vorticosa di un film che sin dall'inizio colpisce con forza. Un grande e bellissimo appartamento haussmaniano completamente vuoto e gelido e il corpo di Yoav sono protagonisti assoluti dei primi minuti, ma mentre il giovane cerca di scaldarsi sotto la doccia gli viene rubato tutto e resta davvero senza nulla: vestiti documenti, soldi, tutto sparito. Potrebbe sembrare la situazione ideale per ripartire da zero ma, come spiega Lapid, «Non basta scappare per cancellare la propria identità». Yoav non ha più nulla. Non è più nulla. Ma nonostante tutti i suoi tentativi resta evidentemente diverso da tutto ciò che lo circonda, un elemento estraneo, con un corpo che si fa simbolo del suo Paese. La coppia di giovani borghesi ricchi e belli che lo salva dal congelamento nelle prime scene lo aiuta e contemporaneamente gli mette addosso quel segno che lo identificherà a colpo d'occhio come anomalo e diverso per tutto il film. Oltre ai soldi e ai vestiti regalano infatti a Yoav un cappotto color senape che non abbandonerà neppure alla fine. E che renderà l'integrazione difficile anche visivamente. La risalita non sarà facile, e altri personaggi verranno a mostrare come da se stessi e dalla propria storia sia impossibile scappare. «Quando ho finito il servizio militare - racconta Lapid - per un anno ho cercato di rientrare nella normalità, ma proprio in quella normalità è cresciuto il demone che mi ha convinto a scappare. Dovevo salvarmi. Come Yoav sono venuto a Parigi. Non avevo nulla, tranne il desiderio di smettere di essere israeliano e diventare francese». Dolore, rabbia, spaesamento e solitudine. Ma anche ironia e leggerezza, e una Parigi che Yoav non vuole guardare perché la sua bellezza gli impedirebbe di capirla davvero. E violenza e odio. E in fondo, come commenta Lapid: «Fino a quando si odia non si è indifferenti. L'odio è l'altra faccia dell'amore».
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