Abraham B. Yehoshua
Non ricordo esattamente quando Amos Oz definì «ferita» la sorgente creativa da cui lui e altri scrittori traggono ispirazione. Ricordo però benissimo che io mi affrettai a dissociarmi da questa affermazione un po’ generica, dicendo che non ravvisavo in me alcuna ferita che mi spingesse a scrivere, malgrado capissi perfettamente la forza che la sua biografia esercitava su di lui.
Ho l’impressione che questo scambio di opinioni tra noi avesse a che fare con una discussione più ampia, alla quale lui fece riferimento nel suo ultimo libro What is in an apple [in corso di traduzione per Feltrinelli, ndr], nel quale respinge esplicitamente la mia pretesa che la letteratura ponga in primo piano anche conflitti morali. Per lui, dare vita a figure umane in un’opera letteraria è di per sé un atto morale, mentre il dibattito su temi etici va condotto con una «seconda penna», come definiva i suoi interventi giornalistici. E in effetti, nei suoi testi ideologici e politici, Amos esprimeva posizioni etiche forti, coraggiose e scevre da eccessive semplificazioni
Amos Oz
Saggezza letteraria
La «ferita», tuttavia, non ebbe fretta di rivelarsi nei suoi libri e, in retrospettiva, Oz agì con saggezza letteraria. Il suicidio di un genitore non è soltanto la rivelazione di un’effettiva debolezza di una famiglia che getta un’ombra scura sui membri rimasti, ma sminuisce anche il valore di un figlio o di una figlia, come se questi non valessero abbastanza perché i genitori si mantengano in vita per loro. Una «ferita» di questo genere viene quindi anche recepita come un grave difetto, al punto che persino durante le nostre conversazioni intime, quando l’amicizia tra noi si fece più stretta, Amos evitava di parlarne.
Ma la morte della madre, il suo suicidio, emergeva con lampi poco chiari e allusivi dalle profondità della sua produzione letteraria e dal groviglio delle situazioni immaginarie. Quasi fosse impossibile toccare quella ferita senza approfondirne maggiormente le origini, la natura e tutto ciò che l’avvolgeva. Ricordo che quando lessi dell’incidente di Ivria, la moglie del protagonista morta fulminata all’inizio di Conoscere una donna, mi dissi «ecco un primo segnale di avvicinamento alla ferita».
«Aspetta, ci sta arrivando»
Ma era un avvicinamento ancora titubante, superficiale e privo di effetto. E il fatto che in Fima il protagonista è orfano di madre non mi parve sufficiente per ritenere che Oz fosse arrivato a toccare a fondo quella ferita.
Avrebbe osato discendere ancor più in profondità e sondare il trauma che, a suo dire, rappresentava la fonte principale della sua scrittura? Ricordo che mia moglie Ika, sia benedetta la sua memoria, che leggeva i romanzi di Oz in maniera più corretta e precisa di me, mi disse: «Aspetta, ci sta arrivando, non deve correre. Per esprimere compassione, ma anche rabbia, deve prima superare la vergogna».
Ed è strano che il cammino verso il suicidio della madre in Una storia di amore e di tenebra dovesse passare attraverso il lirismo di Lo stesso mare, il libro che Oz amava più degli altri. Ed era incredibile anche per lui, autore di prosa per eccellenza, riuscire a dedicarsi a un’età avanzata ai toni lirici che avvolgevano la morte silenziosa di Nadia Danon. Un lirismo che diluì un poco la rabbia che si portava ancora dentro per la dipartita della madre. Ma in effetti Lo stesso mare - un libro strano, ibrido e variegato, sul cui frontespizio Amos scrisse nella dedica a me e a Ika: «Eccomi qui, di fronte a voi, il più vicino possibile a quel posto tutto mio» - fu il testo che spianò la strada alla grandiosa mimesi che ricostruì la storia della sua famiglia, della sua infanzia e dell’ambiente in cui era cresciuto, comprese le origini lituane della famiglia della madre grazie alle meravigliose conversazioni che Amos ebbe con sua zia Sonia, un’autentica miniera d’oro per lui.
Audace franchezza
Ritengo tuttavia che anche la pubblicazione di Lacci d’amore, lo stupendo libro autobiografico di Haim Be’er che precedette Una storia d’amore e di tenebra, diede a Oz il coraggio di discendere negli abissi dell’infanzia per girare intorno, con pignoleria e fedeltà (ma anche con umoristica gaiezza), alla madre, al padre, e a tutta l’atmosfera della Gerusalemme della guerra di indipendenza nel quartiere Kerem Avraham, e ricostruire minuziosamente non solo i dettagli privati ma anche il clima storico e sociale in cui la sua «ferita» si formò e si aprì. E di giungere con audace franchezza alle pagine finali in cui la compassione, ma anche la rabbia, si intrecciano, alimentandosi a vicenda nel modo più intenso e fedele possibile: le ultime tre pagine, nelle quali è descritto con minuzia il suicidio della madre e che ho letto il 1° febbraio durante la cerimonia di commemorazione in suo ricordo al Teatro Cameri.
Traduzione di Alessandra Shomroni
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