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Il Sole 24 Ore Rassegna Stampa
03.02.2019 Talmud babilonese, Trattato Ta'anit (digiumo), Vol.3
Commento di Giulio Busi

Testata: Il Sole 24 Ore
Data: 03 febbraio 2019
Pagina: 24
Autore: Giulio Busi
Titolo: «Il Talmud babilonese affronta il Digiuno»

Riprendiamo dal SOLE24ORE-DOMENICA di oggi, 03/02/2019 a pag.24, con il titolo "Il Talmud babilonese affronta il Digiuno" il commento di Gliulio Busi

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Giulio Busi

Il titolo è sobrio, senza giri di parole. Ta'anit, Digiuno: nulla più e nulla meno di un confronto a tu per tu con uno dei più misteriosi e profondi fenomeni della tradizione religiosa. La fuga dalla fame e dal bisogno è forse la leva più immediata e forte del nostro essere nel mondo. Perché, allora, varie religioni, e tra queste l'ebraica, scelgono la privazione come via verso il divino, come un modo per interagire con le forze invisibili che reggono la natura e i cuori degli uomini?
Il volume pubblicato da Giuntina, con la solita accuratezza, è il terzo del grande progetto di traduzione italiana del Talmud babilonese. Il trattato sul digiuno è complesso, sobrio, profondo. Proprio come difficile è la sfida dell'astinenza e della rinuncia. Una sfida che va riservata ai momenti di crisi, come ultimo rimedio quando lo stato abituale delle cose è sul punto di alterarsi, o la sciagura è già avvenuta.
Michele Ascoli lo mette bene in chiaro nella sua breve introduzione: «il digiuno, come forma rituale ebraica, esprime la contrizione di fronte a una disgrazia che ha colpito o minaccia di colpire la collettività o un singolo». È cioè un rito che s'inserisce in un più ampio ordinamento di prescrizioni, e che deve accompagnarsi, innanzitutto, alla preghiera e a un esame delle proprie opere.
Rinunciare temporaneamente, entro uno schema sacrale, al cibo e alle bevande, segna il confine tra normalità ed emergenza. E poiché, nel Vicino Oriente antico, la prima emergenza naturale è tradizionalmente la siccità, minaccia mortale per la vita stessa, il libro prende le mosse dalle piogge, dai benefici che esse recano, e dalla fonte ultima da cui dipendono.
«Disse rabbi Yochanan: La pioggia scende grazie alla potenza di Dio, come è detto: A Lui che fa cose grandi, imperscrutabili, meraviglie innumerevoli (Giobbe 5.9)».
È solo un frammento di testo, ma già sufficiente per cogliere la tessitura di quest'opera lontana nel tempo, la cui redazione si compie tra il VI e il VII secolo.
I rabbi discutono tra loro, citano versetti biblici, li spiegano, li accostano gli uni agli altri. E mettono a confronto le loro sicurezze, le paure, i dubbi.
Perché si deve digiunare, quando, in che modo? E che garanzie ci sono, che tutto questo affliggersi porti davvero qualcosa? Perché in qualche caso siccità e catastrofi possono essere evitate, e in altre il cielo sembra rimanere ostinatamente insensibile? «Se vedi una generazione in cui il cielo è corroso come il rame... significa che non vi sono persone che parlano sottovoce». «Parlare sottovoce» significa qui la preghiera.

Senza un appello che s'indirizzi verso quel Dio che ha nelle proprie mani piogge, prodigi, ricompense e punizioni, anche il più rigoroso dei digiuni è destinato a rimanere senza effetto. Il cielo resterà di rame, sigillato, incapace di aprirsi come una partoriente che non possa generare. Le metafore hanno un sapore antico, ma il pensiero che le articola è dinamico, plurale, aperto. Non c'è un autore solo, e nemmeno un'unica verità, in questo libro in cui si riversa il pensiero di intere generazioni. A ogni passo si tocca con mano la tenace fragilità dei maestri, che è anche la loro maggiore forza. Pare quasi che tanto interrogarsi e mettersi a nudo sia un portato del digiuno, ne costituisca il dono arduo.
La rinuncia al nutrimento indebolisce e purifica, rende umili nella speranza del soccorso di Colui che tutto può. Ma prima di essere esauditi, se mai lo si sarà, l'attesa è inospitale come un deserto.
Accade anche nel Vangelo, nell'episodio delle tentazioni, ove questo ruolo del dubbio è forte e quasi inestricabile: «Dopo avere digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine [Gesù] ebbe fame. Gli si avvicinò il tentatore e gli disse...».
Dopo il digiuno, e non prima, giungono, nella solitudine, le prove. Dal canto loro, i maestri non sono soli, né quando digiunano né quando discutono, e la dimensione corale è al centro delle loro riflessioni.
La Torah insegna che le parole di Dio sono come il fuoco. Ed ecco che i rabbi chiosano: «Come il fuoco non si accende con un unico ciocco, così le parole di Torah non si preservano per mezzo di una persona che studi da sola».
Siamo partiti dalla pioggia e dalla siccità, siamo passati attraverso il digiuno e la preghiera, come appelli alla benevolenza divina, e ci troviamo in una seduta di studio, intenti a condividere il fuoco della Parola. Talmud significa, appunto, "studio". Da qualsiasi parte lo si prenda, il giudaismo rabbinico sfocia nel mare sterminato della Torah, acqua di vita, che irrora qualsiasi siccità.
TALMUD BABILONESE: TRATTATO TA`ANIT (DIGIUNO) Michael Ascoli (a cura di) Giuntina, Firenze, pagg. 332, € 50

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