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Biografia di una vita in più Il filo conduttore che unisce gli eventi della Giornata della Memoria 2019 è la Shoah narrata dalle donne. Per questo la lettura del libro di Fatina Sed è l’occasione per avvicinarsi a quella memorialistica femminile sulla Shoah di cui c’è ancora tanto da scoprire: è “una micro memoria che confluisce nel grande quadro della memoria collettiva che è alla fine quello che permette a una società intera di avanzare verso il futuro proprio perché non smette mai di arricchirsi e di interrogarsi”. “Fatina non è mai veramente tornata dal lager. Si sposò, ebbe tre figlie, ma i fantasmi del passato non la abbandonarono mai. Ripiombava nel panico facilmente, viveva nel terrore che l’inferno potesse tornare. L’ombra del camino si era allungata fino a rubarle la luce, la gioia di vivere e la speranza”. Così Alberto Sed, fratello di Fatina, ricorda la sorella nella testimonianza raccolta da Roberto Riccardi, giornalista e tenente colonello dell’Arma, nel libro “Sono stato un numero. Alberto Sed racconta” pubblicato nel 2009 dalla casa editrice Giuntina. C’è una forza e una disperazione incredibili nelle poche pagine che compongono lo scritto di Fatina Sed “Biografia di una vita in più” e anche se forse non aggiungono nulla di nuovo all’orrore che pervade la letteratura concentrazionaria, ogni nuovo racconto è un mondo a sé, un frammento di storia irripetibile e unico nella sua drammaticità di cui le nuove generazioni hanno il dovere di farne tesoro. Come molti sopravvissuti anche Fatina - che all’età di dodici anni è stata deportata ad Auschwitz, ha visto la madre e la sorellina Emma morire nelle camere a gas, ha assistito impotente al supplizio dell’amatissima sorella Angelica, sbranata dai cani, e ha sofferto crudeltà e violazioni della dignità umana, impensabili agli occhi di una bambina, - ha impiegato molti anni prima di dar voce alla sua esperienza. Un silenzio durato cinquant’anni alla cui base c’è senz’altro il senso di colpa sfocato e taciuto di essere sopravvissuta a madre, sorelle e a tutti gli altri incontrati nel percorso, il forte senso di umiliazione e vergogna per le aberrazioni cui è stata sottoposta, oltre che il timore testimoniato anche da altri sopravvissuti di essere considerata pazza e di veder accolto il suo racconto da incredulità e scetticismo. E’ solo nel 1992 che sono iniziate le prime testimonianze e anche Fatina rilascia in questo periodo la sua al Centro di Documentazione Ebraica. Da quel momento si è intensificato il passaggio di testimone nelle scuole fino all’istituzione del giorno della memoria. Il tentativo di lasciare testimonianza scritta, la rassegnazione di non essere abbastanza esplicativa, la difficoltà di chiedere attenzione hanno fatto si che Fatina conservasse per oltre quarant’anni le pagine che compongono la prima parte di questo libro chiuse in un cassetto. Inoltre “sull’ambivalenza riguardo la pubblicazione si è innestata una naturale, fisiologica ambivalenza dei cari, e si è arrivati settant’anni dopo la liberazione e vent’anni dopo la sua morte a tentare di darle voce”. Perché il silenzio che ha connotato il rapporto con le figlie Emma, Stella ed Enrica si è protratto per tutta la vita di Fatina scavando una fossa affettiva ed emotiva tra la madre e le figlie, oltre che in ognuna di loro. “Se tacendo Fatina credeva di risparmiare alle figlie il male e il brutto della vita, di contro le figlie non chiedevano, per risparmiare a lei il tormento del ricordo, convinte erroneamente che raccontare contribuisse a tenere aperta la ferita”. Fino a quando queste poche pagine, scritte di getto, un po’ disorganizzate e prive di intenti letterari ma comunque preziose, passano in sogno da Fatina alla nipote Fabiana cresciuta in casa della nonna e a lei quasi completamente affidata. E’ infatti con Fabiana, che all’età di dodici anni conosce molto su Auschwitz e sul fatto che la nonna è una sopravvissuta, che Fatina inizia ad aprirsi rispondendo con cautela alle domande della bambina. Il motivo per cui Fatina, come altri sopravvissuti, sia riuscita a trasmettere ai nipoti e non ai figli la tragica esperienza dei campi è probabilmente da ricercarsi nell’esistenza di una distanza emotiva sufficiente da permettere l’esposizione di un simile racconto, e alla vicinanza affettiva giusta per sentirsi accolti. Nella seconda parte del libro le curatrici Anna Segre, medico psicoterapeuta e autrice del libro “Judenrampe. Gli ultimi testimoni (Elliot, 2010) e Fabiana Di Segni, nipote di Fatina Sed e psicoterapeuta sistemico-relazionale, riflettono sull’evoluzione del “danno” subito dai sopravvissuti nei campi di sterminio. Un trauma che soprattutto se si verifica in giovane età come per Fatina compromette irrimediabilmente la fiducia negli altri, nelle istituzioni e nei legami affettivi. Un trauma che ha avuto molteplici effetti nel prosieguo della vita: da una parte c’è un forte senso di estraneità, non metabolizzabile, verso chi non ha conosciuto l’esperienza del campo di sterminio dall’altro per i familiari, in particolare i figli, ereditare quel trauma non raccontabile e senza possibilità di risarcimento diventa un fardello insostenibile. Cosa vuol dire per un figlio crescere con un genitore che ha visto torturare persone care, che ha sperimentato la morte in molte sue forme e lui stesso si è salvato chissà come annegando poi in un continuo senso di colpa per essere sopravvissuto? Le testimonianze delle figlie di Fatina mettono in luce come il “danno” subito dalla madre abbia influenzato le loro relazioni e la loro realizzazione e come abbiano sviluppato negli anni disturbi psicologici collegati ad esso. Il senso di inutilità, di colpa, di umiliazione per ricordi inammissibili, di rivendicazione covati nel proprio intimo dai sopravvissuti si riversano comunque sui figli anche se, per affetto o perché percepiscono la difficoltà del genitore, non riescono a parlarne. Questo lavoro partendo da uno scritto autobiografico e scandagliando l’ambiente familiare e sociale attorno, si propone di mettere in luce le conseguenze psicologiche che un evento come Auschwitz può causare nelle generazioni successive alle quali, con la scomparsa dei testimoni diretti, è sempre più demandata la responsabilità di tramandare la memoria. Comprendere quanto possa estendersi un danno come la detenzione in un campo di sterminio e quante generazioni siano coinvolte da quel danno richiede una ricerca complessa e necessita di tempo per sapere quanto a lungo una tale ferita si trasmetta alle vittime e ai loro discendenti. E’ auspicabile che l’ottimo lavoro svolto dalle curatrici del volume possa essere l’inizio di una ricerca in Italia “sulle conseguenze psicologiche nei figli e nipoti non perseguitati dei sopravvissuti ai campi di sterminio” perché una volta presa coscienza dell’esistenza del “danno” è doveroso approfondirne i particolari e gli sviluppi sulle generazioni future.
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