Rirendiamo dalla STAMPA di oggi, 19/01/2019, a pag. 1/2/3 con il titolo "La Cina di Xi non sarà mai una democrazia"l'intervista di Gianni Vernetti a Wuer Kaixi, sul destino dittatoriale della Cina e gli errori che l'Occidente pacifista continua a commettere.
Gianni Vernetti Wuer Kaixi
"Eravamo giovani e pieni di speranze, vedevamo mutamenti in tutto il mondo comunista, e pensavamo che anche in Cina i cambiamenti radicali fossero dietro l’angolo. Il regime invece mandò i carri armati per soffocare la nostra protesta pacifica». Wuer Kaixi divenne uno dei leader della rivolta di Tiananmen del 1989 quando sfidò in un dibattito l’allora presidente Li Peng. Un testimone diretto che oggi, esule a Taiwan, osserva la Cina e non è fiducioso sulla possibilità che «questo regime attui riforme per arrivare a una società libera e aperta».
Sono passati 30 anni dalle proteste di Tiananmen. Come iniziò la rivolta?
«Avevo 21 anni ed ero studente dell’Università Normale di Pechino. Alle fine degli Anni 80 in Cina c’era una grande speranza di cambiamento ed una grande voglia di libertà e democrazia. La rivolta studentesca nacque per una combinazione di fattori diversi: le prime aperture verso un’economia di mercato favorivano solo la classe dirigente controllata dal Partito comunista al potere, i casi di corruzione si moltiplicavano e la grande aspettativa di cambiamento non era soddisfatta. Nonostante ciò, la Cina stava cambiando giorno dopo giorno, e i giovani avevano grande fiducia che cambiamenti radicali fossero dietro l’angolo. Questo era il contesto in cui nacque il grande movimento di Tiananmen: i giovani volevano più democrazia, libertà di parola, di stampa, stato di diritto».
Ci fu qualche leader o movimento a livello internazionale che ispirò la protesta?
«Eravamo affascinati dall’esperienza di Solidarność in Polonia e in un certo senso tentammo di imitarla. C’era una grande speranza e sentivamo di poter cogliere un’opportunità storica per la nostra generazione e avevamo la sensazione di non essere soli. Era in atto un forte cambiamento dall’Europa dell’Est a Mosca e fino qui a Pechino». Poi sulla piazza arrivò Gorbaciov.
«Lo ricordo come se fosse ieri; era il 15 maggio quando il presidente Gorbaciov venne a Tiananmen a incontrare gli studenti. Era stato fissato in quei giorni il primo summit fra Urss e Cina. Gorbaciov aveva avviato una serie di riforme politiche inimmaginabili solo fino a poco tempo prima ed eravamo convinti che la “perestroika” avrebbe finito per contagiare positivamente il regime cinese. In più la sua visita rappresentava per noi la possibilità di aumentare il consenso politico e l’audience internazionale del nostro movimento».
E il consenso all’interno della Cina?
«Il nostro era un movimento spontaneo, non organizzato e molto “romantico”, che ottenne un grandissimo sostegno popolare: giorno dopo giorno crescevano le delegazioni di impiegati, operai, insegnanti che venivano a portare solidarietà. Tutto ciò ci rendeva ottimisti ed eravamo convinti che il governo avrebbe aperto un dialogo con gli studenti e che si sarebbe incamminato sulla strada delle riforme e dell’apertura politica». Non finì così però.
«No, il governo della Repubblica popolare cinese ignorò le richieste degli studenti, si spaventò per il grande consenso popolare che stava crescendo in tutta la Cina e dopo cinquanta giorni di pacifica e nonviolenta occupazione di piazza Tiananmen, scelse l’opzione peggiore, quella militare. Ma non furono solo gli studenti ad essere colpiti. Non posso dimenticare Liu Xiaobo: insegnava nella mia facoltà ed era un uomo mite e estremamente intelligente, un vero mentore per me. La sua presenza al campo tutti i giorni e la sua vicinanza al movimento studentesco fu la ragione della durissima persecuzione che subì negli anni successivi. Prima fu radiato dal corpo insegnante, poi venne ripetutamente incarcerato, e non potè ritirare il Premio Nobel per la Pace nel 2010, per poi morire due anni fa in carcere».
Come si vive 30 anni in esilio?
«Abbiamo combattuto per la libertà e il prezzo che abbiamo pagato è stato molto alto: molti hanno perso la vita, altri hanno subito il carcere o l’esilio. Ho iniziato il mio esilio in Francia, poi negli Usa e da anni vivo a Taiwan. Ho avuto la fortuna di vivere in tre Paesi nei quali libertà e democrazia sono la norma, non l’eccezione. Ho studiato, lavorato e viaggiato nel mondo libero e mi ritengo fortunato, ma l’esilio è una condizione terribile: da 30 anni non incontro i miei genitori. Non posso tornare in Cina e il governo ha sempre impedito loro di uscire dal Paese per vedermi. La loro unica colpa: essere i miei genitori. Questa è una concezione della giustizia barbarica e primitiva. L’esilio è una terribile forma di tortura mentale e spirituale».
Com’è la tua vita oggi a Taiwan?
«Taiwan è la dimostrazione di come sia possibile costruire un Paese cinese libero e democratico. Questo Paese mi ha adottato ed è diventato il mio Paese. Qui è la mia casa, dove mi sono sposato, vivo e lavoro. La stampa è libera e sono editorialista e commentatore politico per tv e giornali. Da qui, non ho mai smesso di lavorare per costruire un futuro democratico per la Cina».
Dove sta andando la Cina? Qual è la tua previsione 30 anni dopo Tiananmen? «Negli Anni 80 la Cina si era incamminata in un positivo processo di riforme economiche e politiche che fu interrotto bruscamente dalla repressione militare del 1989. Le conseguenze immediate furono lo stop della crescita economica per i due anni successivi (1990 e 1991). Deng Xiaoping a quel punto fece una scelta strategica, proponendo un nuovo patto con i propri cittadini: più libertà economica in cambio di maggiore cooperazione politica. Da un punto di vista politico, una mostruosità. E l’Occidente, purtroppo, ha adottato in questi 30 anni una politica di “appeasement” nei confronti della Cina, aiutandola di fatto a consolidare il proprio regime».
Il modello cinese del «capitalismo senza democrazia» lega la stabilità alla crescita economica. Lo ritieni ancora un modello credibile?
«Intanto va ricordato che nel caso cinese si tratta non soltanto di un modello non democratico, ma anche di un capitalismo molto particolare, senza regole del gioco trasparenti e condivise. In Cina c’è solo una parvenza di libero mercato e di competizione fra gruppi economici e l’unica regola che esiste e quella dettata dalla grandi corporazioni economiche ancora direttamente controllate dal governo. Questo non è capitalismo e non è un modello credibile nel medio termine».
Qual è lo stato della democrazia e dei diritti nella Cina del 2019?
«Nel 1989 il regime cinese inviò l’esercito per schiacciare le manifestazioni studentesca compiendo il massacro di Tiananmen. Oggi la repressione del dissenso si è evoluta e raffinata, con ciò che il regime chiama con un eufemismo “Harmony keeping forces”, le “forze per il mantenimento dell’armonia”: un grande esercito di censori dei media, controllori dei social network e della rete, insieme alle forze di polizia più tradizionali che si occupano di reprimere ogni forma di dissenso religioso, sindacale, politico, culturale. Da Tiananmen a oggi, ogni giorno sono stati incarcerati dissidenti: tibetani, religiosi cristiani, praticanti della Falun Gong e adesso la campagna contro il popolo uiguro. Anch’io sono di origini uigure e ciò che sta accadendo nella mia regione (lo Xinjiang nell’Ovest della Cina, ndr) è qualcosa di brutale, terribile ed al di là di ogni immaginazione. La situazione della minoranza uigura è molto più tragica di quanto si pensi: si stima che vi siano fra i 500.000 e i 2 milioni di cittadini uiguri rinchiusi nelle prigioni e nei centri di lavoro forzato (quasi il 20% dell’intera popolazione). Il regime cinese li chiama “Campi di ri-educazione”, ma non sono altro che immense prigioni e l’intero Xinjiang è sigillato e occupato militarmente. Le notizie che filtrano sono pochissime. Anche i campi di concentramento nella Germania nazista furono scoperti solo pochi mesi prima della fine della guerra».
È possibile prevedere in futuro una Cina democratica?
«È una possibilità certo, ma non con questo regime, che non è in grado di auto-riformarsi e di promuovere vere riforme che portino ad una società libera e aperta».
La formula «un Paese, due sistemi» sembra essere in crisi, a cominciare da Hong Kong. Qual è la tua opinione?
«Io non posso andare a Hong Kong. E quanto sta accadendo giorno dopo giorno, dimostra che la formula “un Paese, due sistemi” non può funzionare né a Hong Kong, né a Macao, né a Taiwan».
Cosa pensa del riarmo cinese e della vicenda del Mar Cinese Meridionale?
«Premesso che non sono un esperto di questioni relative alla sicurezza ed alla difesa, credo che l’occupazione militare degli isolotti nel Mar Cinese Meridionale rappresenti una sfida della Cina nei contorni dei Paesi del Sud-Est asiatico ed un tentativo di ridurre l’influenza Usa nella regione. Il governo di Pechino è convinto che nel lungo periodo un confronto militare con l’Occidente sia inevitabile».
Come l’Occidente deve affrontare le nuove sfide lanciate dalla Cina?
«Gli ultimi 30 anni sono stati caratterizzati da una politica di “appeasement” nei confronti della Cina e sempre più la Cina sta rivelando oggi la sua vera identità. Per anni, si è proposta come una tranquilla e pacifica potenza orientale, la cui crescita economica avrebbe portato benefici all’intero pianeta. Ma non è così. La Cina propone un sistema di valori antitetico alle democrazie liberali ed oggi si sente in grado di promuoverlo ed esportarlo a scapito dell’Occidente. Spesso in Occidente ritenete che la Cina sia quasi giunta vicina alla vostra porta di casa, ma non così: è già entrata nel vostro soggiorno e vi chiede di cambiare il vostro stile di vita per adottare il suo».
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