Jan Palach: 50 anni dopo. L'eroe dimenticato contro l'occupazione sovietica di Praga Commento di Cesare Martinetti
Testata: La Stampa Data: 15 gennaio 2019 Pagina: 26 Autore: Cesare Martinetti Titolo: «Praga ’69, il grido di fuoco»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 15/01/2019, a pag. 26, con il titolo "Praga ’69, il grido di fuoco", il commento di Cesare Martinetti.
Cesare Martinetti
Non sopportava le ingiustizie, nemmeno la più piccola. Poco prima dell’invasione sovietica di Praga (21 agosto 1968), Jan aveva passato un mese in un campo di lavoro vicino a Leningrado. Era una consuetudine, tra «partiti fratelli». E là con calore e passione aveva sostenuto le buone ragioni della «Primavera» che declinava inesorabilmente sotto le pressioni di Mosca. «C’erano studenti cechi e russi - ha raccontato suo fratello Jiri -, il capo era naturalmente un russo e diceva loro quando si doveva giocare a carte e quando lavorare. Ogni giorno mangiavamo minestra, una volta d’avena, un’altra di semolino. Era terribile e Jan organizzò la protesta: “Vogliamo della carne!”. I cechi erano d’accordo, i russi avevano paura, l’unico che si unì alla protesta fu minacciato. Jan prese le sue difese dicendo che se gli fosse successo qualcosa, l’avrebbe fatto sapere a tutto il mondo…».
Jan Palach
Il numero 1 Neanche sei mesi dopo, il 16 gennaio ’69, Jan Palach ha davvero fatto sapere qualcosa a tutto il mondo immolandosi nel cuore di Praga, in piazza San Venceslao. Era la «torcia numero 1» di un gruppo di ragazzi che avevamo deciso di fare come i bonzi a Saigon in un gesto - come scrisse Arthur Miller - di «affermazione e disperazione». Non amava «l’acquetta tiepida della convenienza», avrebbe detto più tardi il grande ceco Bohumil Hrabal. Accanto al suo corpo, rannicchiato come un mucchietto di carbone ancora fumante, un breve scritto, subito chiamato «il testamento» di Jan Palach.
Ecco il testo: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Dato che ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi vogliamo l’abolizione della censura e la proibizione di Zpravy [il notiziario delle forze d’occupazione sovietiche, ndr]. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, il 21 gennaio una nuova torcia s’infiammerà».
Jan Palach aveva compiuto vent’anni l’11 agosto 1968, era al secondo anno di Storia ed Economia politica della Facoltà di Filosofia. Il professor Kasik ha ricordato di quando tentò di raggiungere il Castello (la sede del potere che domina la capitale) per protesta contro l’invasione e fu duramente fermato dai sovietici. Un’esperienza che ebbe forti ripercussioni emotive su di lui, definito da Kasik, fino ad allora, «un tipo tranquillo e razionale».
Le altre torce umane L’agonia di Jan Palach è durata tre giorni. Il suo gesto, così estremo, sembrò a molti sconcertante. Lui e il suo gruppo di «torce» avevano preso ispirazione dai bonzi che in Vietnam si davamo fuoco contro la guerra americana. Il primo era stato Thích Quang Ðuc, l’11 giugno 1963, a Saigon. Nella lettera che scrisse al capo dell’assemblea degli studenti di Lettere Lubomir Holecek qualche giorno prima di immolarsi, Jan proponeva un’azione di massa: che «occupiamo la radio di Stato e chiamiamo a raccolta tutti», evocando in questo modo il ’68 parigino. La censura sovietica era la sua vera ossessione. Per questo l’auto-immolazione era gesto disperato che appariva individuale, sopportabile da un animo temprato da una forte fede religiosa: e Jan - sappiamo dal fratello Jiri - aveva studiato la Bibbia e ogni sera recitava una preghiera.
Nei tre giorni di agonia, prima del collasso in quel corpo quasi interamente combusto, come accade talvolta ai grandi ustionati, Jan Palach è rimasto lucido. «Ero in servizio quando venne portato in ospedale e sottoposto al primo intervento chirurgico. Sapeva che stava per morire e tutto ciò che voleva era che la gente capisse il suo gesto. Credeva nella Primavera di Dubcek e quel che ha fatto lo aveva fatto perché nel periodo della demoralizzazione, paradossalmente definito della “normalizzazione”, non vi era nessun modo per rendere pubblico il proprio pensiero e il proprio punto di vista». È la testimonianza di Jaroslava Moserova, medico di guardia all’ospedale, raccolta come quella di Jiri nel volume Dubcek-Palach edito da Rubbettino.
Il 25 gennaio, ai funerali solenni, parteciparono 600 mila persone: «Il suono delle sirene a mezzogiorno e il rintocco delle campane - scrisse Enzo Bettiza - trasformarono l’intera città in un paesaggio pietrificato dove tutti rimasero fermi e silenziosi per cinque minuti». Almeno altre tre «torce» si accesero e vennero subito spente nei giorni seguenti, nel silenzio imposto dalla censura del regime. Scriviamo a memoria i nomi dei martiri: Josef Hlavaty, 26 anni, operaio; Jan Zajic, 19 anni, studente; Evcen Plocek, 39 anni, operaio. Il 25 ottobre 1978, dieci anni dopo, le autorità hanno convocato la famiglia e rimosso la tomba di Jan Palach dal cimitero perché «la gente portava troppi fiori che marcivano presto e questo non rispondeva alle norme igieniche» della città. L’inverno di Praga era ancora lungo.
Per inviare alla Stampa la propria opinione, telefonare: 011/ 65681, oppure cliccare sulla e-mail sottostante