Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 12/01/2019, a pag. II con il titolo "Praga ferma per Jan" l'analisi di Andrea Kerbaker.
Il film si chiama Jan 69, ne è autore tale Stanislav Milota. Jan, col solo nome proprio, non ha bisogno di cognomi: non può che essere Palach, lo studente cecoslovacco di filosofia che nel gennaio di cinquant’anni fa si diede fuoco sulla piazza San Venceslao di Praga per protestare contro l’invasione sovietica; e infatti il film sta sul sito ceco a lui dedicato: janpalach.cz. In apertura solo due date, bianche su fondo nero: 16.1.1969, quella del giorno in cui Palach si immola; 19.1.1969, la morte, dopo tre giorni di agonia. A seguire un grande Jan con altre due date: 11.8.1948 e 19.1.1969: una vita di appena vent’anni. Stacco. Sulle cupe note del requiem di Janacek, le immagini in bianco e nero di piazza San Venceslao, lì dove il ragazzo è caduto a terra avvolto dalle fiamme, proprio sotto il monumento al santo fondatore della Cecoslovacchia. Ci sono cande- le, a centinaia, a migliaia; la macchina da presa le segue fino alla base del monumento, dove c’è soltanto una grande foto: quella di Palach. Una foto che negli otto minuti del documenta- rio vedremo riprodotta mille volte sui muri. Davanti, due ragazzi immobili, una bandiera cecoslovacca in mano, copia forse involontaria dei due sol- dati con le armature scolpiti sotto il monumento. Lì è morto un eroe del nostro tempo. La macchina da presa fa un giro e inizia a seguire una coda di folla: per- sone, persone, persone, in una fila or- dinata di tre o quattro, nei loro cap- potti invernali, in un silenzio spettra- le, tesissimo, che le note iniziali del requiem sottolineano appena. Non c’è alcun indugio su quei volti praghe- si sconvolti, i cappelli di lana a ripa- rare dal freddo del gennaio ceco. Li si vede appena; quello che colpisce è che nessuno parla. Sono tutti lì, usciti dalle loro case per quell’omaggio col- lettivo, e nessuno ha voglia di proferi- re parola: testimoniano con la loro presenza, e tanto basta. E, incredibi- le, nello stato dittatoriale che tutto controlla, non si vede neppure un’u- niforme. Ci sono momenti in cui an- che i leader meno tolleranti sanno che non è il momento di farsi vedere: quel giorno era uno così. Nuovo stacco.
Jan Palach
Ora la telecamera è all’interno di un’aula universitaria, totalmente vuota; una di quelle che Palach frequentava nei suoi corsi di filosofia, probabilmente. Da lì, dalla finestra, si vede il cortile interamente cosparso di fiori: una massa immensa di corone e mazzi deposti da autorità, professori, singoli cittadini. Sono i lo- ro volti che ti colpiscono quando la macchina da presa arriva in basso, nel cortile, e li riprende da vicino. Se prima il dolore delle persone in coda nelle strade era composto, controlla- to, qui dentro il pianto è generale. Piangono alcune vecchie nerovestite, che tirano fuori i fazzoletti dalle ma- niche dei golfoni; piange un signore anziano, che un bastone bianco ha portato fino a lì, con il passo trabal- lante e incerto. Un altro vecchio con la barba bianca si inginocchia davanti al feretro; è accompagnato dalla mo- glie tutta vestita di nero, piccoli oc- chiali e un foulard annodato sotto al collo; insieme paiono usciti da un film muto di Ejzenštejn, con quella stessa espressività che il cinema sonoro non ha più saputo proporre. Piangono an- che i ragazzi, con l’espressione seria che non corrisponde alla loro età; ma ci sono momenti in cui fermare le la- crime è impossibile. Neanche i pro- fessori ci riescono; non perdono il loro aspetto accademico, rigido e solenne, ma dietro le lenti degli occhiali molti di loro hanno gli sguardi umidi. Non sembra piangere, invece, la madre di Palach, inquadrata durante la cerimonia funebre. Non piange, ma è quasi peggio: perché ha i lineamenti totalmente distorti. Nel suo vestito nero, i capelli nerissimi sotto il velo, è come la protagonista di una tragedia greca: la Madre per antonomasia, con la iniziale maiuscola, che ha soppor- tato il dolore più grande e intollerabi- le. E’ lì, ovviamente in prima fila, sor- retta al braccio destro dall’altro figlio – il marito è morto da qualche anno – ma non occorre aver studiato psicolo- gia per saperla sola, orribilmente. At- torno a lei ci sono seicentomila perso- ne, eppure potrebbe essere l’emble- ma stesso della solitudine. Così come la macchina da presa che, dopo avere ripreso ancora una volta la piazza gre- mita dovunque, se ne va per una stra- da bagnata, due lunghe file a destra e sinistra, mentre la musica sfuma len- tamente e lo schermo si annerisce per lasciare, di nuovo, posto a una sola scritta bianca: Praha 25.1.1969. Il gior- no, tristissimo, del funerale di Jan Pa- lach. Che dolore; una pena viva, che entra nella pelle come se queste vi- cende fossero accadute oggi, ieri, ieri l’altro, e non cinquant’anni fa. Poten- za delle immagini, le rare volte in cui sanno trasformarsi in emozione, tanto forti da potersi permettere di non uti- lizzare il sovrabbondante orpello del- le parole, lasciando il solo commento al requiem. E pensare che il filmato ci è giunto quasi per miracolo. Con l’inasprimen- to della dittatura in Cecoslovacchia, infatti, in quello stesso 1969 il regista e i due produttori, Yaromìr Kallista e Vlastimil Harnach, vengono licenziati dal loro studio cinematografico, col- pevoli proprio di aver girato il docu- mentario, che viene condannato alla distruzione. Ma sotto le peggiori ditta- ture gli uomini mostrano insospettati atti di ribellione. Di nascosto da tutti, il vecchio direttore dello studio, Myr- til Frìda, salva la pellicola nascon- dendola in un posto sicuro che non ri- vela a nessuno, neppure ai tre autori; un segreto che porta con sé nella tom- ba. Così una volta caduta la dittatura, nel 1989, il regista Stanislav Milota non riesce a rintracciare il film, nono- stante mesi di accurate ricerche. De- vono passare altri tredici lunghissimi anni, fino al 2002, quando l’originale viene ritrovato per puro caso negli ar- chivi. Destino delle vicende coraggiose. Una storia simile a quella di un altro raro reperto, visibile sul sito ceco de- gli studi storici sui regimi totalitari. E’ un Super8 girato nel 1969 da uno studente diciottenne, Ladislav Gahler, appassionato di cinema fin dal liceo. “Mi piaceva filmare da quando avevo 15 o 16 anni, così al mo- mento del funerale non ho avuto esi- tazioni e mi sono subito recato a Pra- ga. Ricordo che il tempo era piuttosto brutto: nevicava, o forse pioveva. Non avevo troppa pellicola, perciò ciò che è qui è tutto quello che rimane”. Sono quasi quattro minuti girati soprattut- to in piazza San Venceslao, attorno al monumento, ripreso dall’alto e dal basso. Ancora i fiori, ancora le cande- le, ancora i due ragazzi statuari con le bandiere. Nelle riprese amatoriali di Gahler si vede anche un cambio della guardia: uno studente portabandiera lascia il suo posto a un coetaneo. Que- sto spiega come, nonostante il freddo di gennaio, i ragazzi potessero rima- nere così immobili, indifferenti alle folate di vento. Le immagini di Gahler, totalmente silenziose, non sono troppo forti, sicu- ramente non come quelle dell’altro filmato; e tuttavia anche in questo ca- so destano impressione, perché ricor- dano comunque che, al di là del gran- de eroismo di Palach, ce n’è stato uno minore, ma di sicuro non poco rischio- so; quello di persone come queste, che hanno tenuto in casa per vent’an- ni materiale che – se scoperto – le avrebbe portate immediatamente in prigione. Penso alla citatissima frase di Brecht “sfortunato il paese che ha bisogno di eroi”. Sfortunata la Ceco- slovacchia, che nel Novecento ne ha avuto bisogno così tante volte. Contro i nazisti, contro i comunisti, povero paese di grande tradizione e troppo minuta consistenza per poter resiste- re ai carri armati stranieri. Sul web c’è altro materiale video d’epoca, in generale assai meno forte, e quasi sempre in lingua ceca, incom- prensibile nel parlato come nello scritto. Per fortuna in quella piazza, confuso tra la folla, in quel momento c’è anche qualche straniero. Per esempio un ventiseienne di talento, destinato a grande fama in campo fo- tografico e cinematografico: Raymond Depardon, che vincerà un Pulitzer e sarà membro della mitica agenzia Ma- gnum. In quell’umido gennaio è giun- to a Praga passando da Norimberga. Su internet il suo filmato, un cortome- traggio di 11 minuti, non è facilmente scaricabile, ma c’è una sua preziosa testimonianza: “Avevo due macchine, non so più quali, una Arriflex, credo, ma so che ho girato. In piazza San Venceslao, per un minuto, tutti si so- no fermati. Era impressionante. Ave- vo bobine di due o tre minuti, ho fatto qualche ripresa fissa e mi ricordo di aver pensato all’Anno scorso a Marienbad, perché le persone si erano ferma- te sulle scale del metro, come statue, non si muovevano più, ed è durato un minuto vero, una cosa che in Francia sarebbe stata impensabile, un minuto vero in cui si sentiva tutto il peso del- l’oppressione del sistema... essere là e poter filmare quel primo minuto di silenzio è stato un po’ un miracolo”. A distanza di mezzo secolo, il mate- riale occidentale comunque scarseg- gia. Su YouTube l’Archivio del movi- mento operaio ha caricato un video di quattro minuti: immagini anche belle, ma totalmente mute, non così espres- sive. C’è qualcosa in inglese sulla Bbc: un file sonoro dove si intervistano due ragazzi che hanno partecipato all’or- ganizzazione del funerale. In video, invece, un filmato di fine gennaio, con audio un po’ enfatico, ma immagini in parte inedite. Dapprima si vede il car- ro funebre procedere lentissimo in mezzo a una folla che riempie strade e marciapiedi, seguito da tutto il corpo accademico in alta uniforme, e anco- ra la madre con il suo volto devastato, tenuta in piedi ai due lati: a sinistra dalla nuora, a destra dal figlio mag- giore, giovane uomo un po’ stempiato, con il cappello in mano. Uno stacco e siamo al cimitero. C’è un prete, uno solo, abbastanza giovane, in piedi, il libro sacro tra le mani alzate davanti al corpo; dalla bocca gli esce uno sbuf- fo di fiato condensato. Questa volta la madre piange: si passa più volte il faz- zoletto bianco davanti al naso sotto la veletta. Sono tutte immagini in bianco e nero, quasi a voler sottolineare il di- stacco temporale che ci separa da quelle ideologie; per la verità c’è an- che un video a colori, di Itn, di un paio di minuti; ma – tra lo sbiadimento na- turale delle tinte dell’epoca, il cielo plumbeo e i vestiti in prevalenza neri – la differenza non è molta: perfino le corone di fiori sembrano scure, anche nel technicolor. Del resto, senza par- tecipare ad alcun funerale, è scuro, scurissimo, l’abito dello speaker del telegiornale italiano, che il giorno 17, recita serio la notizia, sbagliando an- che il cognome del ragazzo, aggiun- gendogli la desinenza in a, che in lin- gua ceca identifica il genitivo: “Tutti i giornali di Praga dedicano oggi gran- de rilievo al tragico episodio dello studente Jan Palacha, che ieri si è ap- piccato il fuoco dopo essersi cosparso di benzina. Le sue condizioni restano gravissime”; 17 secondi senza immagi- ni, arrivederci e grazie. Meglio tornare alla lingua ceca. Un altro filmato coevo presente sul sito di Palach si chiama Tryzna, cioè “tor- mento”; l’ha girato un certo Dešan Trancik e racconta l’evoluzione della reazione popolare a Praga e Bratisla- va alla notizia della morte del ragaz- zo. Anche in questo caso il ritmo è quello della grande cinematografia dell’est, con una musica incalzante, potente, a marcare l’andamento della tragedia. Ma quella che oggi colpisce più di tutte è un’immagine quasi ca- suale, presa a Bratislava tra i ragazzi che il giorno successivo alla morte di Palach danno sfogo al dolore. Tra i lo- ro volti pallidi, silenziosi, agghiaccia- ti, a un certo momento fa capolino un grande foglio da disegno appeso alle bell’e meglio su una delle finestre dell’università. In grandi caratteri, con una grafia sbilenca, una mano anonima ha scritto un messaggio sem- plice e preciso: Jan Hus, Jan Palach, Jan... A leggerlo oggi, fa un effetto di profezia che colpisce come un pugno in faccia; perché effettivamente meno di un mese dopo un altro Jan, Jan Za- jic, appena diciottenne, andrà in piaz- za San Venceslao per suicidarsi nello stesso modo, terzo in lista nel lugubre elenco.
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