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Informazione Corretta Rassegna Stampa
11.01.2019 A cinquant’anni dalle impiccagioni di Bagdad alla fuga in Europa
Commento di Ephraim Nissan

Testata: Informazione Corretta
Data: 11 gennaio 2019
Pagina: 1
Autore: Ephraim Nissan
Titolo: «A cinquant’anni dalle impiccagioni di Bagdad alla fuga in Europa»

A cinquant’anni dalle impiccagioni di Bagdad alla fuga in Europa
Commento di Ephraim Nissan

Ephraim Nissan, nato a Tel Aviv nel 1955 e cresciuto in Italia, dove visse dal 1965 al 1983 (e dove dal 1975 contribuiva articoli al Bollettino della comunità ebraica di Milano), è uno studioso con oltre cinquecento pubblicazioni accademiche. È da un quarto di secolo a Londra. Si è fatto conoscere sia in informatica (ha pubblicato per esempio in due volumi un libro sulle tecniche di intelligenza artificiale al servizio della prova giudiziaria), sia nelle discipline umanistiche, ambito nel quale soprattutto attualmente pubblica (spesso in Italia). Suo nonno materno fu, anche se ebreo, colonnello nell’esercito iracheno, e direttore dell’arsenale, carica dalla quale dovette dimettersi verso la metà degli Anni Trenta, quando le autorità irachene, come quelle italiane, decisero di disfarsi degli ebrei, che in Irak come in Italia, avevano fatto miracoli per la giovane nazione indipendente.

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Una famiglia di ebrei iracheni

 

La stragrande maggioranza degli ebrei iracheni lasciò l’Irak in un breve intervallo di tempo nel 1950 e 1951, nel quale era consentito agli ebrei di andarsene purché rinunciassero alla cittadinanza irachena e lasciassero gli averi. Nel clima di attacchi verbali, e col moltiplicarsi delle aggressioni fisiche, gli ebrei di solito ritennero che dovessero andarsene pur di sopravvivere. Rimasero circa cinquemila, di circa centoventicinquemila. Un compagno di classe di un mio zio venne catturato da una folla in un luogo pubblico, e costretto a congiungersi carnalmente con una ragazza ebrea, pure catturata; lui lo lasciarono morto per la strada, ma la ragazza scomparve per sempre. Inoltre, a quel periodo risale la legge irachena che considera ogni ebreo trovato in Palestina passibile di morte, in quanto presumibilmente sionista. Alla paura degli ebrei in Irak contribuiva il ricordo, vivido, dei massacri che essi avevano subito il 1 e 2 giugno 1941, con l’esercito britannico che osservava con indifferenza. Ma ne riparleremo. La rivoluzione contro la monarchia sopravvenne nel 1958, ad opera delle sinistra moderata alleata con l’estrema destra. Nel 1963, il dittatore Kassem venne rovesciato dagli estremisti di destra del Baath. Cinquant’anni fa, c’erano ancora 2500 ebrei in Irak, ma ancora per poco. Erano al potere il dittatore Bakr col numero due Saddam Hussein (che lo avrebbe estromesso un po’ piú tardi, e la cui famiglia a Samarra, nel periodo 1939–1941, organizzava manifestazioni di strada di parte nazista). Nel 1969, undici ebrei vennero impiccati per “spionaggio”, dei quali nove il 27 gennaio in piazza a Bagdad e Bassora. Alla televisione, si invitava la gente a venire ad assistere alle impiccagioni, ed a considerare l’occasione una festa. Ma ora devo rivelare un momento veramente rivelatore, e ciò che rivela è di quali bassezze fosse capace, e capace di esibire in pubblico, una certa parte politica, stavolta in Italia. In Se questo è un uomo, all’inizio di un capitolo, Primo Levi mise come epigrafe “Ascolta, Israele!” (come l’inizio di una nota preghiera), epigrafe intesa come appello al lettore a non dimenticare mai ciò che sta per leggere. A Milano, la comunità ebraica tenne una manifestazione di protesta proprio prima delle impiccagioni in Iraq. L’estrema sinistra milanese non trovò di meglio che organizzare una contromanifestazione per esprimere l’approvazione per le impiccagioni di “spie israeliane”. Notare, che il regime iracheno spesso e volentieri torturava e uccideva comunisti. Eppure, quel che importava ai contromanifestanti era che si impiccavano tanti ebrei, e loro approvavano. I miei zii a Milano (che partecipavano alla manifestazione ebraica) videro, tra i contromanifestanti che approvavano le impiccagioni, una ragazza il cui zio stava per venire impiccato. I miei zii conoscevano lo zio di lei come un uomo onesto che lavorava sodo. Ma quella ragazza aveva agito per paura di quegli altri studenti? O forse perché riteneva che la sua famiglia era il passato, ed i “compagni” invece fossero il futuro nel quale si cercava di integrare? Dopo tutto, si affermava che la Rivoluzione era dietro l’angolo. Era anche un avvertimento agli ebrei milanesi: qualora ne trovassero la possibilità, quegli estremisti di sinistra di Milano sarebbero stati ben lieti di lanciare accuse del genere agli ebrei italiani, per poterli liquidare. Quell’episodio dovrebbe essere sempre fatto presente all’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), nei preparativi per il 25 aprile. Quella gioia per le impiccagioni in Irak, nel gennaio 1969, ha marchiato per sempre quei sessantottini che in anni recenti trascinano le stanche membra, come membri anziani ed autorevoli dei gruppuscoli che anno dopo anno, si impegnano negli attacchi e insulti contro i partecipanti ebrei alle celebrazioni del 25 aprile. Ebbene, non c’è ragione decente al mondo, oltre all’ignoranza dei fatti, per lasciare che nascondano l’infamia. Quel marchio del 1969 va rivelato. Come potrebbero i dirigenti dell’ANPI, senza perdere la faccia, consentire che la parte che espresse gioia per le impiccagioni degli ebrei da parte di un regime i cui membri anziani vantavano i trascorsi con l’Asse, partecipi alle celebrazioni del 25 aprile? Come se l’Asse avesse vinto? Del resto, occorre ricordare che a Milano, dei sessantottini gettarono uno studente israeliano da un parapetto, uccidendolo. Nel 1982, durante la tregenda dell’odio per gli ebrei in Italia, che era anche un momento di transizione ad una fase “afascista” anziché antifascista, vi furono estremisti di sinistra che, felici e fieri, vantarono pubblicamente un papà brigatista nero. (Che è come dire che in famiglia avevano voltato gabbana pur di restare totalitari, rossi con qualche prospettiva di potere, anziché neri con solo la nostalgia del passato.) Non ne dubitavo. Ricordavo come un sabato, quelli dell’estrema sinistra fossero venuti a minacciarci, mentre pregavamo, da fuori del tempio di Via Guastalla. Mentre i manifestanti gridavano fuori dal tempio, ricordo che io guardavo la faccia spaventatissima di un ingegnere che anni prima era diventato ebreo per scelta: e pensavo al fatto che situazioni come quella incresciosa e pericolosa nella quale ci trovavamo, nel mio caso mi competevano per nascita, mentre lui aveva scelto. Ricordo anche almeno altre due occasioni. Una volta negli Anni Settanta, forse verso il 1980, una sera di festa del calendario ebraico una vecchia signora che camminava in Via Guastalla, probabilmente era uscita dalla chiesa di San Barnaba in fondo alla via, fermatasi davanti all’inferriata del Tempio, con uno strano luccichio negli occhi ci chiese: “Che si fa qui? Si spennano le galline?” Poi, appigliatasi all’inferriata, si dondolava e ripeteva come una cantilena una bestemmia, dando del boia al suo Salvatore. Per far sentire quella bestemmia al vicinato, come se provenisse dal Tempio ebraico. Il che mostra come la malattia mentale si abbini talvolta all’odio degli ebrei. Nel caso di quella vecchia, ci identificava evidentemente con una sua compulsione ossessiva a trasgredire. Un’altra volta, forse nel 1971, nel corso del Capodanno ebraico una signora sulla cinquantina o quasi, molto grassa, si sedette nel portierato del Tempio di Via Guastalla. Gentilmente, il portiere le aveva offerto una sedia. Finito il servizio, uomini e donne si riversavano dagli ingressi della sala di rito italiano al piano terra, e dallo scantinato di rito levantino. La tizia si mise a gridare: “Viva la bomba atomica!” La folla si mise a correre. Non avrà avuto una bomba atomica, ma una granata? Non si sa mai. Ma torniamo a cinquant’anni fa. In Giordania, re Hussein (il cui cugino regnante in Irak, il giovane Feisal II, era stato trucidato nel 1958) si sentí sotto pressione a calmare gli appetiti dell’opinione pubblica, eccitata dalle impiccagioni in Irak. Il problema, per lui, era questo: in Giordania viveva soltanto una famiglia ebraica (di origine irachena), sotto la sua protezione. Il figlio del capofamiglia venne accusato di spionaggio, ed impiccato, tanto per non essere da meno dell’Irak. E poi c’è la storia di Albert Nunu, cugino di mia nonna. Uomo d’affari a Bagdad, aveva un socio che lo denunciò per impadronirsi dei suoi averi. Ma un ministro del Baath, che era stato compagno di classe di quel mio parente, quegli averi li voleva lui. Fece mettere Albert Nunu in prigione, per mungerlo. Nel 1967, una mia prozia col cancro terminale venne a morire da noi a Milano. Albert Nunu, in prigione, aveva pagato perché la lasciassero partire. Ma venne anche il momento per il ministro di cadere. Il 10 ottobre 1969, una corte suprema militare condannò Albert Nunu a morte come spia sionista. La condanna venne eseguita il 21 gennaio 1970. Quel giorno vennero messi a morte quattrocento persone, incluso un ex primo ministro che aveva condiviso la cella con Albert Nunu. Mia madre stava stirando, a Milano, e si sentí male, quando la radio italiana annunciò che Albert Nunu veniva giustiziato come spia. Torniamo al massacro del 1941. Alla paura, fin dal 1948, contribuiva il vivido ricordo dei massacri di ebrei, a Bagdad e altrove in Irak, del 1 e 2 giugno 1941, quando (scappato a Teheran e da lí in volo verso Roma e poi Berlino, il governo filonazista di Rashid Ali Al-Gailani, al potere da un mese, e con loro il Mufti di Gerusalemme che stava in Irak), Bagdad era sotto il controllo dell’eservito inglese. Al-Gailani aveva lasciato in città il fascista piú acceso, Yunis Sab‘awi, traduttore del Mein Kampf. Mentre costui dirigeva il massacro, l’esercito inglese si limitò a consentire ai politici filobritsannici di condurre in edifici governativi i negoziati per la formqazione del nuovo governo (di Màdfai), ma l’esercito inglese aveva l’ordine di non intervenire a reprimere i disordini. Il console inglese, Sir Kinahan Cornwallis (che aveva scritto la Costituzione del Regno d’Irak, una costituzione ragionevole), convinse in tal senso, vale a dire, a lasciar ammazzare gli ebrei. il generale Archibald Wavell. (Wavell poi comandò l’esercito inglese che perse Singapore, e piú tardi fu Vicerè dell’India durante la carestia che fece strage nel Bengala. Neanche gli indiani lo amano.) Cornwallis poi si rifiutò di far intervenire l’esercito contro i pogromisti quando ebrei glielo chiesero. Una prima ondata, nel pogrom, venne diretta da un nucleo duro di fascisti del Circolo Al-Muthanna, con una moltitudine di opportunisti che lasciarono gli uffici per attaccare gli ebrei. Una seconda ondata, con l’arrivo di seminomadi con lo scopo di darsi ai saccheggi, fece sí che da quel momento ai pogromisti premesse prendere il bottino, cosa piú urgente che uccidere. Una sorella di mia nonna materna si vide il marito ucciso da un tale che gli tagliò il polso per sfilargli l’orologio piú velocemente. Un cugino di mia nonna materna era in treno, ed un pogromista lo aveva fatto scendere e messo in piedi con la schiena contro il fianco del vagone prima di accopparlo, ma un altro assassino gli gridò che aveva trovato un vagone pieno di ebrei. Quel parente si salvò in quanto quello che stava per ucciderlo corse verso l’altro vagone. Un fratello di mio nonno materno era su un taxi, e vide i pogromisti far scendere ebrei da un autobus che era davanti, per ucciderli. Una mia bisnonna (nonna materna di mia madre) si trovava in visita da conoscenti non ebrei, e per via dei disordini, volle andare a casa della figlia (mia nonna): potè farlo accompagnata da una signorina nera (comprata bambina in Arabia e allevata come “figlia minore” per accudire ai “genitori” adottivi: cosa non infrequente in quegli anni a Bagdad), dato si sapeva che gli ebrei non ne avevano in casa (dato che non andavano in pellegrinaggio in Arabia). Il cocchiere si vantò con entrambe di quanti ebrei erano già stati uccisi. La casa dove andò mia bisnonna, la metà di un palazzo signorile nel Quartiere Cristiano dove crebbe mia madre, finí barricata, in quanto assediata dai pogromisti. Un amico, ufficiale, aveva mandato due soldati per aiutare a barricare gli ingressi. Il capo della maramaglia gridò che voleva che mio nonno venisse a parlamentare, mentre la madre di mio nonno lo scongiurava di non farlo, dato che gli avrebbero sparato. La famiglia si salvò, in quanto nel palazzo di fronte, un capofamiglia sciita, “turbante verde” (discendente da Maometto) mandò un giovanotto, del quale era lo zio, alla finestra a mentire ai pogromisti: “Ma che fate? Lí ci abita mia zia!” Vedete, dare l’assedio alla casa della zia di un nipote di un discendente del Profeta non sta bene, soprattutto per i pogromisti cristiani (la voce di una donna prima aveva incitato i pogromisti: “Mussulmani e cristiani, insieme!”). Quindi la maramaglia si sparpagliò, per quanto presumibilmente si sapessero ingannati. Però si vendicarono. Una notte, i magazzini di quella ricca famiglia sciita vennero dati alle fiamme. Tutta Bagdad poteva vedere l’incendio, sia pure da lontano. A una famiglia ebraica del vicinato, in Via della Chiesa dove abitava mia madre, i pogromisti invasero la casa, e buttarono un pianoforte giú in casa a sfasciarsi (come avevano fatto nel 1799 i sanfedisti a Napoli ad un famoso compositore: era Domenico Cimarosa.) Una cugina di mia nonna materna (le loro madri erano gemelle, e quando la madre della cugina morí per l’influenza spagnola, mentre suo marito era disperso nella Grande Guerra, le bambine vennero allevate insieme) abitava all’ultimo piano (in una casa costruita sul tetto piatto sopra un convento!), e durante il massacro, incinta, lanciò dalla sua terrazza in quella della vicina non ebrea i suoi bambini, poi chiese ad un poliziotto in strada di fare la guardia. Quello si girò, prese la mira con la pistola, ed il proiettile la ferí alla spalla. Poi la casa venne invasa dai pogromisti, e mentre quelli saccheggiarono, lei col marito scapparono quasi nudi, con lei ferita in carriola. Furono avvertiti di non andare all’ospedale governativo, dato che gli ebrei ci finivano male. In effetti, si sa che il direttore di quell’ospedale aveva dato un’iniezione letale ai pazienti ebrei. E all’ospedale della comunità ebraica vennero uccisi dai pogromisti sia i pazienti, sia il personale. Tutti. (La parente ferita sopravvisse, e mise al mondo una bambina che, cresciuta, in Israele poi sposò un tale che da bambino era stato gettato nella neve, per salvarlo, da un treno dalla madre.) Il compianto prof. Shmuel Moreh di Gerusalemme (nato Sami Muallam), studioso di letteratura araba, nel primo decennio del Duemila pubblicò articoli autobiografici su un giornale arabo di Londra. Un lettore di origine irachena, non ebreo, scrisse una lettera al giornale, nella quale rivelò una cosa fino ad allora non nota: in una certa città irachena, durante il massacro del 1 e 2 giugno 1941 gli ebrei si rifugiarono in una torre medievale. I pogromisti la bruciarono, con gli ebrei dentro. Abbiamo visto che il 1 e 2 giugno 1941, né le forze di occupazione inglesi, né le altre autorità si curarono degli ebrei che venivano uccisi e depredati. Un uomo politico iracheno molto importante (del quale riparleremo: era il padre della Patria, il generale Nuri Said) ebbe a dire che visto che gli inglesi non lo facevano, neanche le autorità irachene avrebbero fatto qualcosa per gli ebrei. Gli inglesi avevano la scusa di non dar modo all’Asse di sostenere che gli Alleati erano amici degli ebrei. Quando però i pogromisti si misero ad attaccare negozi di non ebrei in una via principale, il Reggente (riportato a Bagdad dagll’esercito inglese) diede ordine di reprimere i disordini. Mio nonno materno fu, anche se ebreo, colonnello nell’esercito iracheno. All’Accademia Militare di Istanbul (che dal 1908 accettava anche allievi ebrei), come cadetto segui anche corsi di ingegneria e di giurisprudenza (e fu come studente di diritto che fece la conoscenza di Moshe Shertok, il futuro ministro degli esteri israeliano Moshe Sharett, che studiava giurisprudenza a Istanbul come facevano in quel periodo i piú anziani David Ben-Gurion, il futuro primo ministro, e Yitzchak Ben-Zvi, futuro presidente di Israele). Mio nonno evitava di raccontare alla famiglia di aver incontrato antisemitismo in Turchia, ma un suo compagno di studi, un iracheno mussulmano, ne raccontò poi a mio zio materno: un ufficiale superiore passava in rassegna i giovani ufficiali, ai quali stringeva il nome dopo averne udito il nome. Arrivato a mio nonno, disse: “Musavi?” (“Uno di fede mosaica?”, che è il termine educato, come si sarebbe detto in italiano: “Un israelita?”), e si rifiutò di stringergli la mano. Mio nonno si mise in vista nella Grande Guerra (“l’iracheno di Canakkale” sui Dardanelli, dov’era ai diretti ordini di Mustafa Kemal: quando quest’ultimo andava a Gallipoli, moi nonno lo sostituiva come comandante del forte). Una volta, nell’Anatolia orientale, aveva fatto i conti per determinare le festività ebraiche, ed un giorno di battaglia aveva digiunato: era Kippur. Il piano di battaglia era che le truppe ottomane avrebbero attraversato la superficie gelata di un lago, ed attaccato le truppe russe. Ma un tale li aveva avvertiti. I russi aspettavano sull’altra sponda del lago. I cavalli si imbizzarrirono, ruppero il ghiaccio, ed annegarono insieme con le truppe ottomane. Mio nonno, ufficiale adolescente, nuotò sotto il ghiaccio, usando un pugnale per romperlo ogni tanto per respirare. In tal modo si salvò. Quando guidava colonne di soldati attraverso le montagne, mio nonno aveva cura di non passare mai dai centri abitati, per evitare molestie ai civili. Alle truppe questo non piaceva. Mio nonno era con altri giovani ufficiali, stivali e tutto, a fare la guardia d’onore agli ordini di Mustafa Kemal (il futuro Atatürk), alla cerimonia nella moschea di S. Sofia ad Istanbul, quando il Sultano aspettava scalzo di firmare la resa. Gli ufficiali inglesi si fecero aspettare. Per insultare i turchi, mandarono davanti a loro dentro la moschea i loro cani da caccia! Dopo la cerimonia, Mustafa Kemal disse agli ufficiali che avevano fatto la guardia, che ormai il Sultano era inutile. A mio nonno venne offerta la cittadinanza turca, ma lui dichiarò di voler tornare in Irak. Gli aveva fatto impressione il fatto che nessuno dei membri del movimento nazionale iracheno catturati dagli ottomani venne lasciato in vita. E come spiegò poi in famiglia, ormai la Turchia non era un posto per chi non fosse di etnia turca. (E sí che Mustafa Kemal lo raccomandò.) Mio nonno fu uno dei tre giovani ufficiali cui, nella cerimonia di incoronazione, si fece dichiarare Feisal I primo Re d’Irak (era la fase equivalente all’Italia liberale postunitaria). Ultratrentenne, fu direttore dell’arsenale reale a Bagdad nei primi Anni Trenta, ma dovette dimettersi in quanto ebreo (per quanto i superiori gli conservassero personalmente la stima anche oltre il decesso prematuro nel 1942), quando (come in Italia), le autorità ritennero che era arrivato il momento di fare a meno degli spettacolari servigi che gli ebrei locali avevano dato alla costruzione della nuova nazione. E cominciò la barbarie. Centinaia di impiegati statali ebrei vennero licenziati in Irak, e ad alcuni di essi si sparò per la strada. Quando, alla metà degli Anni Trenta, una campagna stampa in Italia intimidiva gli ebrei esigendo che firmassero la dissociazione dal sionismo e dal cosmopolitanismo ebraico (campagna che, famigeratamente, riprese La Repubblica di Eugenio Scalfari nel 1982, con la campagna di dissociazione da Israele), un campagna stampa simile ebbe luogo anche in Irak, esigendo anche lí la dissociazione. In effetti, l’Irak fu il primo Paese nel quale la questione della Palestina divenne un argomento di primo piano nel discorso politico nazionale. In Palestina, il finanziamento del sistema educativo veniva lasciato dall’amministrazione britannica al settore volontario, e la crisi finanziaria mondiale del 1929 fece sí che gli insegnanti arabi piú giovani fossero alla mercé del terribile Mufti di Gerusalemme, in carica dal 1924. Lui ne mandò in Irak, e ad un certo punto vennero accusati di istigare gli allievi contro ebrei e kurdi, ma un’inchiesta ministeriale li scagionò, come c’era da aspettarsi. Naturalmente, vi erano anche insegnanti iracheni (non solo quelli mandati dal Mufti) che sobillavano contro gli ebrei. Una trentina di anni fa, un uomo raccontò alla televisione israeliana come quand’era alunno di una scuola statale in Irak, un insegnante, per umiliarlo in quanto ebreo di fronte ai compagni di classe, gli chiese il suo nome (che era un nome arabo), poi quello di suo padre (pure un nome arabo), poi il nome di suo nonno: quello era un nome tipicamente portato da ebrei. L’insegnante dichiarò alla classe: “È venuta fuori, la puzza”. Ma torniamo a mio nonno. Estremisti di destra avevano sottratto armi all’arsenale ed accusarono l’ebreo di averle mandate ai sionisti in Palestina. Chiesero che rotolasse la testa di tutti quanti, al vertice, avevano consentito che un ebreo occupasse una carica tanto delicata. (Mio nonno era un ebreo religioso. Mia madre lo ricorda che pregava, ospite in una tenda beduina, e quei beduini lo rispettavano molto per la sua devozione ebraica. Come nome ebraico, si chiamava Yamin Zion ben Yosef ben Nissim, ed in arabo Yamen Yousef. Era nato nel 1898, secondogenito di genitori adolescenti che avevano appena perso un bambino piccolo, David Zion. Quel primogenito probabilmente nacque intorno ai tempi del primo congresso sionista a Basilea, nel 1896. I genitori, religiosi, avranno dato il nome “Zion” in quanto le speranze di ritorno a Sion sono nel libro delle preghiere, ed il congresso doveva essere una buona notizia. Ma mio nonno aveva giurato fedeltà all’Irak, e mai avrebbe tradito la fiducia accordatagli.) Non lo licenziarono: anzi, lo convocarono in una sala, dove, in un’atmosfera gelida con tutti i pezzi grossi presenti, gli notificarono che con le sue qualifiche, lo trovavano adatto alla promozione a generale. Si dimise subito, spiegando che aveva in piano di lavorare come impreditore (e lo fece). A casa spiegò che se avesse accettato di diventare generale, lo avrebbero ucciso seduta stante. Si tenga presente che tra i nemici di mio nonno c’era il figlio di Nuri Said, l’uomo politico piú autorevole dell’Irak; quel figlio, filotedesco ed aviatore, una volta si fracassò con l’aereo mentre tentava di volare sotto un ponte. Mio nonno venne a trovare Nuri Said, il padre di costui all’ospedale, e quell’uomo politico, mentre accompagnava fuori mio nonno, gli chiese scusa per l’atteggiamento che aveva verso di lui il figlio, e gli disse perfino: “Avrei voluto che fosse stato Lei mio figlio, ma quello è il figlio che ho”. (Nel 1950, quel figlio si arricchí molto dato che clandestinamente, l’ancora assai povero Stato d’Israele gli pagava una somma fissa per ogni ebreo internato cui si consentiva di lasciare l’Irak.) Un mio zio materno, deceduto di recente, era col padre quando, bambino sui nove anni, suo padre ricevette in ufficio un generale amico, per una transazione: fra l’altro, mio nonno era merchant-banker. Non insisteva sul pagamento di prestiti o dell’affitto con chi era in ristrettezze. In quell’occasione, mio nonno ed il generale parlarono delle intenzioni del campo filonazista nella politica irachena. Il generale disse: “Non li lasceremo mica fare quel che vogliono fare”. Mio zio, bambino, si appigliò moltissimo a quella promessa di protezione. Speranza delusa dal pogrom che sia i vertici iracheni, sia l’esercito inglese, lasciarono che avesse corso senza ostacoli. Durante il mese in cui, nella primavera del 1941, l’Irak si allineò con l’Asse, un alto ufficiale per motivi di coscienza informava lui con due altri ufficiali ebrei della riserva, spaventati, che il governo aveva sull’agenda il trasferimento di tutti gli ebrei in un campo fuori città dove sarbbero entrati, ma da dove non sarebbero usciti. Anche dopo la conquista inglese, li informò ancora che quel piano del campo era ancora all’ordine del giorno governativo; ne venne tolto solo dopo la battaglia di El-Alamein, quando fu chiaro che i tedeschi non sarebbero tornati nei Paesi della Mezzaluna Fertile. Per quanto si fosse dimesso dall’esercito, mio nonno continuò a cercare di aiutare nella vita quegli ex-soldati che, capaci ed onesti ma poveri, meritavano. L’ordinanza mangiava sempre a tavola, con la famiglia. Mio nonno dava dei campi in mezzadria (in Irak ma anche in Palestina) ad ex-soldati che stimava, senza pretendere alcun pagamento, ma gli portavano della verdura. Una volta, ad un ex-soldato mezzadro che stava per sposarsi, regalò la terra. (Nel 1948, con mio nonno morto da anni, venne con la moglie a mostrare alla famiglia della vedova i legumi che in via sperimentale erano riusciti a coltivare. Glieli diede, ma chiese di fargli riavere le sementi.) Gli agrari del vicinato si infuriarono, e, capeggiati da un ministro fascista, lo minacciarono di morte se non avesse loro ceduto le terre. In seguito al pogrom del 1941, mio nonno pagò lo Stato iracheno dieci anni di tasse in anticipo, purché gli consentissero di trasferirsi in Palestina. Mentre camminava per la strada con uno dei figli, di dieci anni (quello che aveva tanto sperato nella promessa del generale), un’auto tentò di investirli. Tornato a casa, sconvolto dall’accaduto, prese dal frigorifero acqua gelata e la bevette. Visse ancora un mese, con la salute che peggiorava. Venne operato per enfisema il giorno della Festa delle Capanne (chiamata tradizionalmente anche “giorno della nostra gioia”), e morí quarantaquattrenne sotto i ferri del chirurgo. Pochi giorni prima del progettato trasferimento in Palestina. Mia madre ricorda che, quattordicenne, mentre era in classe alla scuola ebraica, l’insegnante fece in modo che lei non si trovasse vicino alla finestra, mentre passava il funerale ebraico, ma con gli onori militari che nonostante tutto, a mio nonno si tributarono. Anni dopo, il primo ministro Nuri Said, il fondatore dell’Irak, che era l’uomo politico piú importante, e del quale abbiamo già parlato, fece fermare all’autista l’auto in cui si trovava, per chiedere a mia madre ed al fratello, che stavano camminando per la strada, come stava la famiglia. (Anni dopo, la stessa cosa successe a mio zio e mia zia piú giovani.) E sí che era quello l’uomo politico che (grande manipolatore della propria rabbia: per esempio quando negoziava col primo ministro giordano) aveva dichiarato che avrebbe ridotto a pezzenti tutti gli ebrei iracheni. Ed era stato lui che, nel 1948, aveva esortato alla radio gli arabi palestinesi a sfollare dalla proprie case, per non intralciare gli eserciti arabi che, fatta piazza pulita degli ebrei, gli avrebbero fatto avere le case degli uni e degli altri. La colf araba palestinese confermò questo a mia nonna materna a Bagdad. (In barba ad alcuni storici che ora dubitano che quella trasmissione avesse mai avuto luogo.) Avrete capito che Nuri Said era un politico di spessore non indifferente, anzi padre di una nazione, ma che si era lasciato diventare atroce, che che tra sé e sé voleva dimostrare a sé stesso che era ancora un uomo buono. La sconfitta dell’Egitto nel 1956, e l’eccitazione che questo causò in Irak contro quell’alleato della Gran Bretagna, ne prepararono la morte. Che fu delle piú atroci. Lui primo ministro, scoppiò nel 1958 la rivoluzione. A quel tempo mia nonna materna viveva in un appartamento anziché in una villetta come prima (e prima ancora, come gia menzionato, nella metà di un palazzo signorile a piú piani). Dalla finestra, lei e la figlia minore videro come la folla avesse riconosciuto per la strada il primo ministro, che si era travestito da vecchia donna per salvarsi. (Come aveva fatto Metternich a Vienna nel 1848. Senonché, Metternich somigliava ad una vecchietta anche senza fare sforzi.) I rivoltosi, afferrato Nuri Said nonostante il travestimento, lo fecero letteralmente a pezzi. Il capo di un partito della sinistra moderata, come scrive in una raccolta recente di novelle dal vero, Fouad Zelouf, un avvocato e musicologo ebreo iracheno, molto avanti negli anni, che si firma Matthew Caswell (nome che assunse per poter lavorare nel Nord dell’Inghilterra, dove vive), parlò dal proprio balcone ad una folla di sostenitori, e cercò di far loro capire che era contro la religione ostentare, come stavano facendo proprio allora sventolandole, le parti del cadavere del primo ministro Nuri Said. (Il recente libro di Fuad Matthew Caswell, Tales of the Near and the Far, si può acquistare per dieci sterline scrivendo a info@MiraPublishing.com In precedenza, Caswell ha pubblicato un altro libro di novelle, Menashi’s Boy, pubblicato da Matador a Leicester nel 2010, e nel quale alcune novelle trattano degli eventi intorno al Farhúd, cioè il pogrom per antonomasia, quello del 1941, nonché di altri aspetti dell’esperienza ebraica, anche in Inghilterra. In persiano, “farhúd” sigbnifica “abbondanza”, e vi sono uomini che portano quel nome. Per gli ebrei iracheni invece, il nome è passato ad indicare un pogrom, dato che il saccheggio viene concepito dai perpetratori come un loro attingere ad un’abbondanza a loro disposizione.) Nel 1950 o 1951, mia madre passoò per la via proprio dove gli ebrei che avevano scelto di lasciare tutto purché li lasciassero espatriare con pochissimi spiccioli, venivano caricati su dei pullman per venir portati all’aeroporto (da dove aerei li dovevano trasportare, sulla carta, a Cipro e poi in Israele, ma in realtà erano voli diretti). Mia madre vide un taxi formo, con dentro un uomo col turbante che osservava e diceva al tassista: “Dio li manda in Palestina, per ucciderli tutti lí”. Al conservatorio dove mia madre aveva studiato pianoforte e composizione, gli allievi ebrei scomparvero. Ad eccezione di mia madre, per la quale lo Stato, memore di suo padre, fece un’eccezione. Per quanto brava, il conservatorio si limitò a bocciarla formalmente. (Dopodiché, proseguí privatamente gli studi di composizione a Bagdad con un insegnante tedesco di Transilvania, sosia del compianto Rav David Schaumann di Milano.) Uno zio di mia madre andò a lamentarsi per la bocciatura chiaramente politica, con un insegnante nestoriano di musica, suo ex-commilitone, che gli rispose: “Forse che tuttle le tue dita sono uguali?” Che è come dire: non sono stato io a prendere quella decisione. E la performance che mia madre doveva dare alla fine del corso venne cancellata; ci andò di mezzo anche lo studente armeno col quale mia madre doveva suonare, e che pianse dicendo: “Non sapevo che sei tu fossi ebrea”. Il primo direttore dell’Istituto di Belle Arti (del quale il conservatorio faceva parte, come pure il Dipartimento di Dramma) era stato un bravo amministratore, per niente arrogante, Muhyeddin Heidar, della famiglia reale hascemita. Era di modi delicati. Ed era monocolo. Durante la guerra in Arabia tra le dinastie hascemita e saudita, le forze hascemite avevano catturato un bambino della dinastia saudita (il futuro Re Saud), e gli cavarono un occhio. Le forze saudite ritagliarono, cavando un occhio ad un bambino hascemita prigioniero: Muhyeddin Heidar. Il bravo rettore venne ad un certo punto sostituito da un insegnante di geografia, nazionalista, e l’Istituto divenne meno tollerante. Ecco come mai mia madre, unica ebrea rimasta, venne bocciata. Venne incoraggiata a fare il master al Conservatorio di Parigi, da un insegnante di madre francese e padre hascemita, ex-allievo della famosa Nadia Boulanger. La nuova amministrazione nazionalista del Conservatorio di Bagdad non gli aveva rinnovato il contratto, sia per le vedute moderne di lui (la linea del Conservatorio era che Giuseppe Verdi non si poteva suonare: “Figli miei, non sapete quel che state facendo!”, un insegnante esclamò una volta che aveva sorpreso gli allievi a suonare Verdi: ma succede anche in Italia…), sia perché era imparentato con la famiglia reale. Un avvenimento precipitò le cose. In famiglia, si venne a sapere che uno dei fratelli di mia madre, un ragazzo sedicenne, era sotto investigazione da parte della polizia. Sua nonna materna (l’abbiamo già incontrata mentre attraversava Bagdad durante il pogrom) andò a trovare il direttore del Criminal Investigation Department di Bagdad (era amica di sua moglie). Quello le disse che avevano appreso che la classe alla scuola ebraica nella quale mio zio studiava, si apprestava a fuggire dall’Irak. Mia bisnonna disse: “Ma come figlio di Yamen, a lui un passaporto lo darebbero, se lo chiedesse. Perché mai dovrebbe scappare?” (Mentre la maggioranza degli altri ebrei non poteva ottenere un passaporto.) Il questore aveva mostrato a mia bisnonna una fotografia di tutti i ragazzi della classe di mio zio, ma mia bisnonna rispose che quella era una normalissima foto che la classe di liceali si era fatta fare come ricordo. Quel questore si convinse, ma le indicò un vecchio ebreo che stava passando, diretto in cucina. Era il padre di un bidello della scuola ebraica. Il questore disse a mia bisnonna: “Quello che ci ha dato la foto e le informazioni è quello”. Avete capito? Un bidello e suo padre erano stati prontissimi a mandare tutta una classe di liceali ebrei al patibolo, pur di guadagnare qualcosa. Non bastava la situazione precaria degli ebrei, il padre del bidello aveva mentito alla polizia per rendere le sue informazioni piú interessanti. (Abbiamo visto che la bisnonna aveva amicizie in alto loco. Ma una volta per la strada, vide due uomini al tavolo fuori di un ristorante. Uno dei due la indicò all’altro, probabilmente di fuori città, dicendogli che era ebrea. L’altro si alzò e la rincorse, col coltello in mano: lo aveva preso dal tavolo del ristorante. Lei, vecchia, corse, cadde, si rialzò, corse ancora e riuscí a seminarlo. Quanto allo zio che era stato accusato, in quel periodo, un giorno, lui ed un fratello piú grande vennero riconosciuti come ebrei ed attaccati da una banda di giovinastri, ma riuscirono a scappare. Il fratello gli aveva detto: “Se ci attaccano, concentrati su uno di loro, se anche dovessero ammazzarti”. Lo so per esperienza, essendo stato pestato sedicenne per un giorno intero al liceo, riportando un disordine al sistema vestibolare che mi limita ancora adesso. Anch’io, in quell’occasione, mi concentrai nel ripicchiare solo uno della banda dei quattro. Non faccio nomi, chi c’era, ricorda. No, non era perché ero ebreo, ma in quanto ero primo della classe. Ma a Milano c’è un ebreo che, pestato in quanto ebreo da sessantottini che aveva creduti amici, riportò la stessa menomanzione. Dopo il pestaggio, i picchiatori gli telefonarono: “Porciovski!”, modificando in tal modo il cognome del rabbino Kopciowski.) A mia madre premette far uscire quel fratello dall’Irak, a scanso di ulteriori pericoli, e quindi andò in un ministero a parlare col vecchio ministro, Alwan Pasha, cui baciò una mano come se fosse suo nonno, e che (molto rispettoso della memoria del padre di lei, che ricordava come suo bravo allievo) si premurò di chiederle come stava la famiglia, ed a raccomandarle di farsi accompagnare all’estero da un fratello. Proprio quello che lei voleva. Ma salendo la scalinata del ministero, vide che scendeva un ufficiale iracheno di parte nazista, e che l’aveva vista. Quindi, ulteriore premura di andarsene dall’Irak. Quell’ufficiale era figlio di un barbiere presso la scuola ufficiali, ed quel barbiere volle che anche i due figli diventassero cadetti. Diventarono entrambi ufficiali in vista. Ma mentre uno dei due, uomo molto buono, era molto amico della mia famiglia, l’altro, di simpatie naziste, li vedeva come il fumo negli occhi. Tanto piú che la nonna materna di mia madre era sua vicina di casa. Quell’ufficiale beveva, e picchiava la moglie insegnante, che ad un certo punto morí. I loro due bambini, impauriti quando il padre diventava violento, erano soliti scappare, attraversando uno stretto passaggio in un corridoio tra le case contigue, in casa di una loro nonna, e di là in quella di mia bisnonna, che li nutriva o li lasciava dormire a seconda della situazione, e li nascondeva in un armadio quando loro padre veniva a cercarli. Lui sapeva che erano lí, e faceva minacce. Un po’ piú tardi dell’inchiesta a carico dei liceali della scuola ebraica frequentata da mio zio (vi erano varie scuole ebraiche), ma era un caso diverso, vari giovani ebrei vennero processati e impiccati, in un processo nel quale alcuni erano accusato di comunismo, altri di sionismo. In Irak, i reati d’opinione si pagavano con la vita. Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna rifiutarono gli appelli di parte ebraica ad ostacolare le impiccagioni del periodo dell’Esodo dall’Irak. Figuriamoci. Per le impiccagioni di comunisti, erano semmai piuttosto grati all’Irak per quel grande servizio reso al mondo libero... Quanto a salvare ebrei, non ne parliamo. Nel corso del processo, il giudice di grado piú elevato in Irak tenne un discorso nell’aula giudiziaria, ed in quel discorso affermò che nel corso della storia, gli ebrei avevano sempre tradito l’Irak. Affermazione falsissima. Considerando tutta la storia della Mesopotamia, quell’accusa non fu mai vera. Neanche quando Ciro, invadendo dalla Persia, depose il nipote di Nabuccodonosor a Babilonia, gli ebrei fecero alcunché contro Babilonia. Anzi, erano i babilonesi che non avevano voglia di appoggiare il loro re, il quale aveva introdotto una riforma religiosa invisa al clero, al quale Ciro promise di revocare quella riforma. (A proposito di Nabuccodonosor: nel periodo 1939–1941, la propaganda antiebraica di estrema destra in Irak comprendeva anche slogan che invocavano Nabuccodonosor come nemico degli ebrei.) Venne impiccato a Bassora anche (e gli confiscarono i beni) un milionario ebreo, Shafiq Adas, accusato falsamente di aver mandato del materiale smesso dall’esercito, a Israele. Ma lui aveva fatto quegli affari insieme con due ministri, che non vennero importunati. Quando mia madre faceva la fila per farsi timbrare i documenti per l’espatrio, la vedova del magnate impiccato era proprio davanti a lei, ed un impiegato alla frontiera offese quella vedova, dicendo: “Colore dei baffi”, come se fosse uno dei dati del passaporto. (La vedova visse poi a Londra.) Mia madre col fratello rimase ad Istanbul per sei mesi (avevano trovato alloggio col l’aiuto della figlia di un banchiere armeno, direttore della filiale di Istanbul del banco di Roma, e conoscente di loro zio; questo moi prozio, fino alla conquista inglese nel 1941 aveva lavorato presso la filiale di Bagdad del Banco di Roma, per quanto presso quella filiale si usassero svastiche di bronzo come fermacarte). Poi mia madre e moi zio non proseguirono per Parigi, ma invece per Haifa: si erano fatti convincere da un parente, che poi divenne mio padre. In Iisraele vi sono circa trecento ila ebrei di origine irachena. A Londra vi sono alcune migliaia di ebrei di origine irachena. In Italia ve ne sono pochi, non comparabili per numero agli ebrei siriani, libanesi, ed egiziani a Milano, o a quelli libici a Roma. Un mensile che si soleva stampare a Londra, The Scribe, una volta riferí che negli Anni Cinquanta, vi fu un incindente in cui ad alcuni ebrei italiani venne rifiutato l’ingresso in Irak. Uno spirito di patata alla Farnesina suggerí una ritorsione: non far entrare in Italia ebrei dall’Irak. (Non se ne fece niente.) Verrebbe da pensare agli schwerzi di Amintore fanfani,e forse di Giulio Andreotti. Comunque, come battuta non era originale. Quando furono varate le leggi razziali in Italia nel 1938, la Turchia reagí (come scrisse Renzo de Felice in Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo) con la pseudo-minaccia che se l’Italia avesse messo in atto discriminazuioni contro ebrei cittadini turchi, la Turchia avrebbe fatto lo stesso contro ebrei cittadini italiani… Sotto la dittatura di Kassem (Abd-ul-Karim Qasim), dal 1958 al 1963, per quanto ci fosse molta animosità contro Israele, e l’accusa di sionismo fosse mortale, Kassem stesso non si mostrò nemico degli ebrei locali. Forse perché (è stato suggerito nella letteratura da uno studioso) il fatto di essere nato da un padre sunnita e da madre sciita lo induceva a mettere le differenze identitarie in prospettiva. Tuttavia, dei consiglieri sovietici lo convinsero a costruire due torri a Bagdad (premetto che non le mai vide construite) proprio dov’era il cimitero ebraico, che era stato in funzione fin dal Cinquecento. Alla comunità ebraica venne data una scadenza, e gli addetti della comunità fecero in tempo solo ad evacuare i resti mortali dei loro parenti. (La legge religiosa ebraica richiede la sepoltura perpetua.) Il cimitero venne distrutto, compresa la fossa comune col monumento per le vittime del pogrom del 1941. La dittatura di kassem cercò di scoraggiare l’immigrazione di meridionali a Bagdad. Fino all’esodo degli ebrei alla metà del ventesimo secolo, Bagdad era stata una città a maggioranza sunnita (circa la metà della popolazione), con una grande minoranza sciita, una quasi altrettanto grande minoranza ebraica, e minoranze cristiane (nestoriani caldei di osservanza romana, nestoriani assiri, Chiesa autonoma questa, e armeni). L’immigrazione dal Sud paludoso risultò nell’attuale maggioranza sciita a Bagdad. Il regime di Kassem fece una retata di meridionali, che vennero trasportati in camion al Sud, dove li fecero assistere mentre parte di loro, legati e coricati, vennero spiaccicati dai camion. La settimana seguente, si sostenne poi, i superstiti erano di ritorno a Bagdad. Un capo della polizia, dal quale Kassem andava di sera a giocare a carte, partecipò ad un complotto. Una sera, Kassem notò che nel giardino di quella casa gli tendevano un agguato, sicché cambiò direzione. Mia nonna materna sentí bussare alla porta di casa. Aprí, e si trovò davanti Kassem. Senza profferire parola, il dittatore attraversò la casa, aprí una finestra, ed uscí. Al mattino dopo vi furono arresti. Mia nonna venne a Milano con la figlia minore nel 1962, dopo aver regalato roba di casa, e quasi tutta l’argenteria, ai vicini. Nel 1963, vi fu il colpo di Stato da parte degli alleati di Kassem: gli estremisti di destra del partito Baath. Avevo circa otto anni, in Israele, mentre alla radio israeliana trasmisero, di sera nel notiziario, mentre ero già a letto, parte di una trasmissione di Radio Bagdad: i rivoltosi a far chiasso in una parata trionfale, preceduti dalla moglie del generale Aref, ex “amico” del generale Kassem. La donna lanciava ululati di gioia. A udire quella trasmissione, spaventato per quel che poteva succedere a mio zio materno rimasto a Bagdad, arrotolai una rivista di mia madre e, portatola alla bocca, “suonai” quella rivista come se fosse uno sciofàr, a mo’ di preghiera. Kassem per qualche giorno fu a piede libero. Cercò di squagliarsela in barca, ma lo presero e uccisero. Sperando di salvarsi, aveva incoraggiato una controinsurrezione di comunisti, che fallí. Con la dittatura di Aref, cominciò il Grand Guignol: una fase di atrocità grottesche, all’insegna della camera di tortura. Il “periodo arifiano” (come lo chiamano gli storici) continuò dopo che il primo Aref perí in un disastro aereo. Gli successe il fratello. A costui succedette Bakr, quello che fece impiccare gli ebrei nel 1969, e poi il suo braccio destro, Saddam Hussein. Un medico ebreo venne giustiziato per “comunismo”. La prova: curava i poveri gratis. Inoltre, ecco un altro caso. Loolwa Khazzoom, un’ebrea di New York, scrisse in un articolo del 1999, “A big piece is missing in this ‘peace’”, Clamor Magazine (http://www.loolwa.com/archive/articles/pgs/piece.html): “Sono cresciuta sentendo di uno degli zii di mio padre, torturato da funzionari governativi iracheni per il crimine di essere ebreo. Degli arabi appesero quest’uomo ebreo per i pollici, e lo lasciarono lí per sette giorni, finché i pollici gli si ruppero. Era stato un chirurgo di talento; ma non poté mai piú praticare la medicina”. Una trentina di anni fa, lessi in un supplemento settimanale di un giornale israeliano un’intervista ad un presentatore di un programma musicale. Era di origine irachena. Raccontò che un amico (lo zio del auale racconterò nel prossimo paragrafo) gli regalò a bagdad una collezione di dischi (era stata di mia madre...), e lui li usava nel suo programma. Raccontò anche che mentre Saddam era adolescente, e lavorava in un negozio, lui aveva trattato bene quel ragazzo. (Se è per questo, mia madre lo rocorda circa quindicenne in altre circostanze: una manifestazione. Era già coi baffi, e aspettava un suo parente.) Dopo la Rivoluzione, Saddam (che, sia detto per inciso, si laureò in giurisprudenza: non andava ai corsi, ma si presentava agli esami con due pistole, ed i docenti firmavano la sua promozione) si mise in vista come un duro dei piú duri. L’uomo dell’intervista era in prigione, ed un giorno, nella cella in cui si trovava, si presentarono dei torturatori che si misero a spegnere sigarette negli occhi dei detenuti prima di ucciderli. Saddam, che era con quegli aguzzini, tirò fuori una pistola, e li minacciò: “Se toccate quello, vi ammazzo!” Nel gennaio 1965, un po’ piú di un anno dopo la rivoluzione del Baath che peggiorò di molto le condizioni degli ebrei in Irak, quel mio zio materno che ancora si trovava a Bagdad riuscí a scappare dal Paese, ciò che probabilmente gli salvò la vita. (Qualche tempo dopo, un suo amico venne torturato a Bagdad, poi buttato fuori da un’auto della polizia, e investito. Forse erano presa di mira maschi di ebrei di quella fascia d’età: avevano oltrepassato la trentina.) Alla frontiera iraniana, i contrabbandieri lo costrinsero a consegnare l’orologio. A Teheran, il capo della polizia, che capiva che era un profugo, gli diede questo avvertimento: si fece portare con lui in giro in un’automobile, e ad un certo punto gli chiese se aveva una cartina. Mio zio gliela diede. Il questore mostrò un posto fuori della finestra, e disse: “Quella è un’installazione militare”, poi con la penna segnò il posto sulla cartina, e la ridiede a mio zio. Era una minaccia: se ci dai noie, inventeremo che sei una spia. Quel che conta però è che nell’Iran monarchico, che fu ospitale con gli ebrei iracheni, a quel mio zio si permise di risiedere, dopo di aver dimostrato, su richiesta dei funzionari, che aveva parenti in Iran; anche costoro confermarono di conoscerlo. Un giorno, in Israele, bambino di nove anni, tornai a casa dalla scuola elementare, e trovai mia madre in piedi in cucina. Aveva ricevuto una lettera, e mi informò che suo fratello era riuscito a fuggire dall’Irak. Ora era in Persia. Spiccai un salto di gioia tale, che purtroppo la mia calotta cranica le colpí il mento, incrinandole gli incisivi, che poi richiesero cure mediche. Dopo il decesso della bisnonna della quale ho raccontato, nel 1973 il fratello di mia nonna materna riuscí ad ottenere un passaporto per sé, la moglie, e i loro quattro bambini, e per un po’ fu a Milano, prima di andare in Israele (di cui sapeva poco: l’idea gli faceva paura. Quando a Milano gli mostrai una carta geografica di Israele nei confini di dopo il 1967, mi chiese: “Questo è quel che Israele vuole diventare?” Figuriamoci lo spavento allo scoppio, poi, della guerra del Kippur). In quel periodo, il regime in Irak lasciò partire varie famiglie ebraiche con bambini, per ridurre la presenza ebraica. Tuttavia, vi fu un pedaggio orribile. La famiglia Qashqúsh, una di quelle che dovevano partire, venne massacrata. Si trova la grafia “Queshqoush”. Reuben Ezra Queshqoush con la moglie, due figli ed una figlia vennero uccisi in casa loro il 12 aprile 1973. La figlia rimasta tornò a casa dalla scuola, e trovò che la famiglia era assente, ma la casa era tutta insanguinata. In campo ebraico si fecero varie ipotesi. Quella maggiormente accreditata attribuisce l’eccidio ad un capo della polizia particolarmente sadico. Per un po’ si pensò all’organizzazione paramilitare palestinese Àssifa, che in Irak era al servizio del regime baathista, cosí come in Siria lo era l’analoga organizzazione Sàiqa. Il nome di entrambe vuol dire “tempesta”, come in “Sturmtruppen”. A Damasco, il quartiere ebraico era stato messo sotto il controllo al Al-Saika. In quel periodo, vi furono due casi atroci ai danni di ebrei siriani. Ad un impiegato ebreo, la polizia telefonò in ufficio, insultandolo ed esortandolo ad andare a casa a vedere quel che era successo. Trovò uccisi moglie e bambini, ed il seno di lei era stato tagliato e messo in frigo. Inoltre, tre giovani ebree avevano accettato la promessa di alcuni uomini, erano palestinesi, di contrabbandarle in Libano. Le violentarono ed uccisero. A Milano nel 1973, mentre mia madre ed io andavamo a spasso con lo zio di mia madre, mia madre gli fece domande per via dei denti storti, come prima non erano stati. Lui eluse la domanda. Poi ai miei zii raccontò com’erano andate le cose. Pochi anni prima, un suo amico e socio cristiano di Bagdad venne a trovarci a Milano. (Disse che non aveva mai pensato che sarebbe diventato tanto amico di un ebreo.) Quei due avevano un minimarket a Bagdad, ma il regime convocava regolarmente il loro personale per dimostrazioni varie, sicché l’ebreo ed il cristiano dovevano fare tutto il lavoro da sé, anche le consegne a domicilio. Al ritorno a Bagdad del socio cristiano, lui e mio prozio finirono in prigione, e vennero torturati. I denti di mio prozio vennero torti con le tenaglie. (Anche il suo cuore ne fu assai indebolito.) Quando nel 1973 mio prozio ottenne il permesso di lasciare l’Irak, ne diede l’annuncio al socio, che a quella notizia ebbe un collasso cardiaco e morí al tavolo al quale era seduto. Quali prospettive per un’apertura, da parte dell’Irak? Mentre nel territorio autonomo kurdo iracheno, alcuni hanno espresso amicizia per gli ebrei ed anche per Israele, questo non è il caso dello Stato iracheno. Il ruolo degli ebrei nella storia dello Stato iracheno viene sistematicamente taciuto. Poco dopo la caduta di Saddam Hussein, un deputato iracheno fece un gesto eroico: arrivò a sorpresa in Israele, dove venne acclamato in una sala da ebrei iracheni. Le reazioni in Irak non si fecero attendere. Anzitutto gli uccisero i figli. Come se non bastasse, il parlamento iracheno decise che non appena tornato, quel deputato sarebbe stato punito. Facciamo un passo indietro: negli Anni Novanta, un olandese membro di una missione umanitaria, nell’Irak settentrionale, rivelò ingenuamente che sua madre era sopravvissuta all’Olocausto. Bastò questo per accusarlo di spionaggio. Venne giustiziato. Comunque io ho scritto questa memoria per commemorare le impiccagioni in Irak del gennaio 1969, e della gioia che l’estrema sinistra si premurò di mostrare il giorno delle impiccagioni agli ebrei milanesi. Avevo tredici anni, ma ricordo.

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