Memoria della Shoah: la targa rubata per indebolire il ricordo Commento di Elena Loewenthal
Testata: La Stampa Data: 09 gennaio 2019 Pagina: 23 Autore: Elena Loewenthal Titolo: «L’offesa ai bambini di Sciesopoli per indebolire la memoria collettiva»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 09/01/2019, a pag.23 con il titolo "L’offesa ai bambini di Sciesopoli per indebolire la memoria collettiva" il commento di Elena Loewenthal.
Elena Loewenthal
La targa commemorativa sparita
Due giorni fa a Selvino, piccolo Comune del Bergamasco, è sparita una targa commemorativa. L’avevano deposta appena tre anni fa accanto all’«albero della memoria» al Parco Vulcano alcuni bambini di Sciesopoli. Che bambini non sono più ma vecchietti curvi ormai, dalle mani fragili e gli occhi stanchi che pure ancora conservano qualcosa della voglia di vita di allora, alla fine della guerra. Erano orfani della Shoah, giunti dai lembi orientali dell’Europa, dai campi di concentramento e dai ghetti, che furono ospitati e accuditi per molti mesi nell’ex colonia estiva fascista di questa località di mezza montagna, prima di raggiungere la Terra Promessa. Lo storico Sergio Luzzatto ha dedicato il suo ultimo libro, «I bambini di Moshe» (Einaudi editore) a questa vicenda straordinaria e al suo eroe, Moshe Kleiner, che fece da padre e madre, maestro e tanto altro per quei più di ottocento bambini passati per Selvino fra il 1945 e il 1948.
Il libro che racconta la storia dei bambini di Sciesopoli (Einaudi ed.)
Riscoperta di recente anche grazie a una mostra curata dal Museo Eretz Israel di Tel Aviv, «Le navi della speranza – Aliyah Bet dall’Italia 1945-1948», la storia dei bambini di Sciesopoli che in Italia trovarono la salvezza e soprattutto la voglia di vivere e ricominciare dopo l’inferno dello sterminio è caduta anch’essa vittima di una forma di vandalismo tanto inconcepibile quanto puntuale, in questa stagione dell’anno. Coerente con questo vergognoso teatro dell’assurdo che si replica intorno alla scadenza del Giorno della Memoria è anche il recentissimo furto di alcune pietre di inciampo a Roma. Sta di fatto che, a dispetto dei suoi intenti e della sempre più abbondante messe di manifestazioni, il 27 gennaio sembra essere diventato un infallibile catalizzatore di impulsi distruttivi e vandalici di chiaro segno.
Si tratta di antisemitismo? Certamente. Ma non in una definizione tout court ed esclusiva. C’è infatti qualcosa di più profondo e primitivo al tempo stesso, in questi rigurgiti di odio e desiderio di distruzione che hanno il loro picco nel mese di gennaio, proprio in concomitanza con una commemorazione che dovrebbe essere educativa, che dovrebbe chiamare una riflessione collettiva su un passato europeo comune, che appartiene a tutti e da cui nessuno dovrebbe sentirsi escluso perché la storia della Shoah è innanzitutto italiana, europea, occidentale, prima ancora che degli ebrei.
E invece proprio il rifiuto di questa storia, il riflesso condizionato di attribuirla agli ebrei come se fosse cosa esclusivamente loro e come se la memoria fosse «soltanto» un atto d’omaggio, la passiva osservazione di quel passato invece che un’assunzione di responsabilità – che, si badi bene, non significa sterile senso di colpa ma coscienza civile di appartenenza – generano i mostri di questi atti vandalici «fisici» e di tanti altri «virtuali», fatti di parole sputate nella rete, sulle piattaforme dei social. Difficile dire quale potrebbe essere la soluzione per questa piaga, il «vaccino» in grado di invertire la rotta, ma purtroppo tutto lascia pensare che il progetto educativo del Giorno della Memoria sia ben lungi dall’aver assolto il suo compito.
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