La condanna e il linciaggio di Leo M. Frank nella Georgia dei primi del Novecento
Commento di Giuliana Iurlano
Leo M. Frank - la locandina del film (1988), con Jack Lemmon
A distanza di più di un secolo, il cold case di Mary Phagan sembra non essere stato ancora definitivamente risolto. Il 26 aprile 1913, la piccola Mary, una tredicenne bianca di Marietta, che lavorava nella National Pencil Factory di Atlanta – una fabbrica di cui l’ebreo del Nord, Leo M. Frank, era sovrintendente e in piccola parte anche proprietario – fu trovata stuprata e strangolata in un locale dell’edificio. L’omicidio risaliva al giorno precedente e, prima ancora che le accuse si indirizzassero verso Frank, le autorità di Atlanta avevano arrestato sei persone, tra cui Jim Conley e Newt Lee, i custodi neri della fabbrica. Le indagini, però, ben presto presero un’altra piega, anche perché vi fu una grande mobilitazione di massa: la folla indignata premeva perché il caso venisse risolto alla svelta e i giornali locali puntavano il dito contro i mali del lavoro minorile e contro la lussuria e la perversione, l’avidità e lo sfruttamento dei capitalisti ebrei del Nord. Se la violenza razzista negli Stati del Sud era all’ordine del giorno, l’urbanizzazione e l’industrializzazione del paese mostravano i nuovi volti della povertà e dello sfruttamento. La famiglia di Mary era una delle tante famiglie di agricoltori in affitto, trasferitisi in città nella speranza di un miglioramento delle proprie condizioni di vita, così come tanti altri contadini bianchi del Sud avevano fatto. La loro situazione non era migliore di quella di molti neri: la povertà e lo sfruttamento erano simili; ciò che cambiava era solo il colore della pelle. Ma al pregiudizio razzista contro i neri si era aggiunto da tempo anche un altro antico pregiudizio, quello contro gli ebrei del Nord, identificati tout court con il capitalismo rampante, con il mondo della finanza e degli affari, con lo sfruttamento che ormai colpiva anche il mondo “wasp”.
Mary Phagan
Mary Phagan, una ragazzina bianca povera, che montava le gommine sulle matite con le mani e veniva pagata 12 centesimi all’ora, divenne, dopo la sua morte, il simbolo dell’infanzia sfruttata, della donna bianca violata e, soprattutto, dell’avidità del capitalismo nordista, in particolare di quello gestito dagli ebrei. Molte cose stavano cambiando negli Stati Uniti: il contesto internazionale era diventato più aggressivo; la società stava viaggiando ormai al ritmo implacabile dell’industrializzazione; le ondate migratorie portavano oltreatlantico grandi masse di diseredati e di perseguitati soprattutto dall’Europa dell’Est e del Sud in cerca di riscatto; il sogno americano veniva ridefinito sull’onda del progressismo, ma anche dei tumultuosi scioperi nelle fabbriche, ricacciati indietro dagli uomini di Pinkerton, o dei gruppetti esaltati degli anarco-comunisti che speravano di realizzare proprio in America la rivoluzione colpendo i simboli viventi dello sfruttamento, mentre l’ondata populista percorreva tutte le classi sociali e lo yellow journalism incendiava le piazze di sensazionalismo. La violenza era aumentata in maniera esponenziale nel Sud degli Stati Uniti e il nuovo capro espiatorio erano diventati gli uomini d’affari, dietro i quali venivano individuati gli ebrei, secondo lo stereotipo più diffuso e antico. Ben presto, la miscela incendiaria alimentata dalle piazze – unitamente al bisogno del procuratore di risolvere il caso e di assicurarsi una possibilità più concreta di far carriera – si concentrò su Leo Frank, l’ultimo ad averla vista viva, che fu accusato dell’omicidio e incolpato proprio da Jim Conley.
Louis Marshall, presidente dell’American Jewish Committee, descrisse il caso quasi come un “secondo affare Dreyfus” e, di fronte alla folla che urlava “Crack the Jew’s neck!” e “Lynch him!”, la comunità ebraica decise di difendere pubblicamente il proprio rappresentante con interventi sulla stampa locale e con una raccolta di fondi per organizzarne la difesa, anche perché da molto tempo gli ebrei di Atlanta erano perfettamente integrati nella società. La prima cosa che emerse fu la debolezza della linea difensiva di Frank: questi, sulla base della “prova” considerata quasi inoppugnabile, vale a dire il fatto che fosse apparso “nervoso” quando la polizia lo aveva interrogato dopo aver trovato dei capelli della ragazza nel bagno di fronte al suo ufficio – divenne il principale indagato, ma la sua difesa non seppe contrastare i racconti fatti da alcuni testimoni che mettevano in dubbio la sua serietà con le donne, e soprattutto non contestò con la necessaria determinazione le dichiarazioni giurate sorprendenti rilasciate proprio da Conley, arrestato nei giorni precedenti proprio mentre stava rimuovendo sotto l’acqua delle macchie presumibilmente di sangue o di ruggine da una camicia blu da lavoro. Conley dichiarò, tra l’altro, che Frank gli aveva confessato l’omicidio, avvenuto dopo che la ragazza aveva rifiutato le sue avances, che lo aveva aiutato a spostare il suo corpo e che aveva scritto un biglietto da lui dettato (le famose “note” dell’omicidio). Tutto il processo avvenne durante un’estate caldissima, con l’aula piena di gente che inveiva contro Frank, mentre, dalle finestre spalancate, entravano le urla della folla che chiedeva il linciaggio dell’ebreo e minacciava gli stessi giurati se non avessero condannato a morte il “dannato sheeny”. Dopo che Frank venne condannato alla pena capitale, Marshall personalmente seguì per due volte la richiesta di revisione del processo e poi presentò l’appello alla Corte Suprema, ma senza successo, se non con la conseguenza negativa di avvalorare ancor di più nella folla l’idea che il denaro ebraico stesse cercando di modificare la sentenza, anche attraverso una incessante campagna di stampa. Dopo un’estesa raccolta di firme, di appelli e di petizioni, che portò il caso alla ribalta nazionale, John M. Slaton, governatore della Georgia, nell’estate del 1915, un giorno prima dell’impiccagione di Frank, commutò la sentenza di morte in ergastolo, dichiarandosi convinto della sua innocenza e del fatto che essa sarebbe stata provata in breve termine, cosa che lo trattenne dal concedergli un perdono totale. Ma il giorno successivo, Frank venne rapito dalla prigione in cui era rinchiuso da un gruppo di 28 facinorosi definitisi come i “Cavalieri di Mary Phagan” (molti di loro erano persone molto influenti, come venne dimostrato in seguito proprio da una parente della ragazza assassinata), condotto a Marietta, la città natale di Mary, e linciato. Il nuovo governatore si impegnò ad individuare i colpevoli del sequestro, ma senza riuscirci. Dopo il linciaggio di Frank, circa metà dei tremila ebrei della Georgia lasciarono lo Stato. Nel 1986, il Georgia State Board of Pardons and Paroles concesse a Leo Frank il perdono, ma senza mai assolverlo dall’accusa di omicidio. Dal 2013, anno del centenario della morte di Mary Phagan, sono comparsi molti siti web per dimostrare che Leo Frank era effettivamente colpevole, ma l’Anti-Defamation League (nata proprio nel 1913 sull’onda del “caso Frank”) ha chiarito qualche anno fa, con un comunicato stampa, che si tratta di “siti ingannevoli”, creati da “antisemiti dichiarati per promuovere i temi propagandistici dell’antisemitismo”.
Giuliana Iurlano è Professore aggregato di Storia delle Relazioni Internazionali presso l'Università del Salento. Collabora a Informazione Corretta