Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 08/01/2019, a pag. 14, con il titolo "La saudita in fuga è sotto tutela Onu, non sarà estradat" il commento di Giordano Stabile.
L'Arabia Saudita è un regime dominato dalla legge del Corano, nonostante le prime riforme volute da Mohammed bin Salman. Rinnegare l'islam è considerato un crimine punibile con la morte. Questo spiega la fuga della ragazza 18enne, scappata dalla famiglia che voleva costringerla a un matrimonio combinato. Le stesse pratiche sono diffuse in tutto il mondo islamico, ma i media occidentali preferiscono puntare il dito esclusivamente contro l'Arabia Saudita da quando questo Paese si è allineato in Medio Oriente con gli Stati Uniti contro l'Iran degli ayatollah, collaborando anche con Israele nella Coalizione sunnita.
Ecco l'articolo:
Giordano Stabile
Se il caso della 18enne saudita Rafah Mohammed al-Qunun arriverà a un lieto fine, come ieri sera tutto lasciava pensare, un ruolo importante l’avranno giocato i social media, in particolare Twitter. Tutto è cominciato sabato sera, 5 gennaio, quando l’impiegato ai transiti della Kuwait Airlines allo scalo Suvarnabhumi di Bangkok chiama un funzionario dell’ambasciata saudita, Ali al-Anazi, e consente il sequestro del passaporto della studentessa, su richiesta del padre. Rafah è partita dal Kuwait con l’obiettivo di raggiungere l’Australia, sostiene di avere già il visto d’ingresso, ma per imbarcarsi dalla Thailandia ha bisogno del documento di identità. Il perché della fuga emerge poco alla volta. Il padre vuole costringerla a un matrimonio non voluto. Lei ha ripudiato l’islam, lo ha detto agli amici, scritto su Internet. Queste dichiarazioni la mettono in pericolo, perché in Arabia Saudita l’apostasia è un crimine punibile con la morte.
Rafah Mohammed al-Qunun
Gli addetti alla Kuwait Airlines le mettono a disposizione un volo di ritorno. Rafah si è barricata in una stanza dell’hotel della zona transiti. Comincia una lunga cronaca su Twitter con un primo appello: «Sono la ragazza fuggita dal Kuwait verso l’Australia, salvatemi, sono in pericolo, mio padre mi ucciderà». Poi l’immagine di lei che ha messo il materasso di traverso la porta, per impedire che vengano a prenderla. La resistenza della giovane, e la solidarietà che arriva dalla Rete, danno i suoi frutti. Il caso viene ripreso da media, intervengono attivisti per i diritti umani, forniscono i numeri locali dell’agenzia Onu per i rifugiati, consigliano a Rafah di far valere i suoi diritti garantiti dalle leggi internazionali. Il blitz dei sauditi fallisce. Insinuano che la giovane sia residente in realtà in Kuwait, e quindi sottoposta alle autorità kuwaitiane che avrebbero il diritto di reimbarcala, ma la ragazza posta il suo tesserino da studentessa in Arabia Saudita.
È un braccio di ferro che si sblocca con l’intervento, ieri mattina, dell’Ufficio per l’immigrazione thailandese. Il direttore, generale Surachate Hakparn, nega l’autorizzazione al rimpatrio. Spiega che il caso è serio, i timori della ragazza credibili. «Se viene deportata rischia la morte, la legge saudita lo prevede – spiega –. Non mi prendo una simile responsabilità». Il caso, continua, sarà gestito dall’Unhcr. Rafah posta una foto con l’arrivo dei funzionari all’hotel, è più sollevata. Ma un’altra notizia la inquieta. A Bangkok è arrivato anche il padre. «Sono spaventata», scrive, perché anche un cugino ha minacciato di ucciderla, «con le sue mani». Ma almeno si sente «sicura sotto la protezione dell’Unhcr». E, soprattutto ha riottenuto il suo passaporto. Poco dopo, alle otto di sera locali, a Rafah è concesso l’ingresso in Thailandia: viene condotta fuori dall’aeroporto e portata in una casa sicura a Bangkok, con la protezione delle forze di sicurezza thailandesi, come specifica l’Ufficio immigrazione. Il caso, spiega il direttore, «sarà trattato nei prossimi cinque giorni», finché si troverà un Paese di accoglienza, si spera la stessa Australia. È il lieto fine, festeggiato anche su Twitter, dove il suo account ieri sera ha raggiunto i 64 mila follower.
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