Gustaw Herling
IC dedica oggi una pagina a Gustaw Herling, a lungo censurato per volontà della sinistra comunista anche in Italia.
Ecco la lettera inviata da Gustaw Herling a Benedetto Croce, primo lettore italiano degli scritti di Herling. Una lettura non facile, da non perdere, è anche inclusa nella edizione Oscar di "Un mondo a parte", ce l'hanno inviata Marta e Benedetto Herling, che ringraziamo.
I gulag come i lager. L'ostracismo contro Gustaw Herling, commento di Cristina Missiroli
http://www.ideazione.com/Interazione/24-2000_18-07_24-07_2000/missiroli.htm
La copertina (Oscar Mondadori)
Quando, il 5 luglio scorso, ha chiuso per sempre gli occhi a Napoli, sua città d'adozione, "l'Unità" e "il manifesto" non se ne sono neppure accorti. Ma Gustaw Herling di certo non si sarebbe stupito di un simile irrispettoso trattamento. Sarebbe forse rimasto più colpito dalla prima pagina della sezione culturale di "Repubblica", del tutto inaspettatamente a lui dedicata in quella triste occasione. Che l'intellighenzia di sinistra lo detestasse non era un mistero. Il suo nome è stato di fatto cancellato dalla vita culturale italiana per più di un trentennio. Eppure Herling era considerato, ormai da anni, una delle più celebri figure letterarie polacche e di fatto, dopo aver sposato la figlia di Benedetto Croce, Livia, ed essersi trasferito a Napoli nel 1955, era anche un italiano d'adozione. La fama e i riconoscimenti internazionali non gli sono mai valsi molto in Italia. Herling portava con sé un peccato originale che non poteva essere perdonato dal pensiero dominante italiano: considerava assolutamente equivalenti i lager nazisti e i gulag staliniani. E continuava a scriverlo, senza remore. Nato il 20 maggio 1919 a Kielce, città della Polonia centrale, Herling debuttò in campo letterario alla fine degli anni Trenta, ancora studente, come acuto critico letterario. Prigioniero dei sovietici durante la Seconda guerra mondiale, per cinque anni visse nel lager di Kargopal. Dall'esperienza della prigionia nacque la sua opera più conosciuta, il libro "Un mondo a parte" pubblicato a Londra nel 1951. Si trattava della prima grande opera di letteratura sui gulag sovietici. Vent'anni prima dell'"Arcipelago Gulag" di Aleksandr Solzenicyn che oggi viene fatto studiare nelle scuole (o forse sarebbe meglio dire, in alcune scuole). "Un mondo a parte" fece gran scalpore ed entusiasmò il filosofo e premio nobel inglese Bertrand Russel che lo definì: "il libro più sconvolgente e meglio scritto sui lager sovietici". Ma proprio a quest'opera va ricondotta l'antipatia degli editori e della critica italiani nei confronti di Herling. La tesi fondamentale dello scrittore polacco era infatti chiarissima: e si basava sulla completa equiparazione della brutalità dei regimi (i "gemelli totalitari") nazista e sovietico. Scriverà più tardi Herling: "La differenza tra i due regimi riguarda i metodi di uccisione. E' chiaro che nei campi sovietici non si mandavano le vittime alle camere a gas, ma lo sterminio avveniva tramite il lavoro massacrante, il freddo, la fame, le percosse. Il risultato era lo stesso". Per quanto scontata e, in fondo banale, la tesi era fatta per irritare i salotti culturali italiani. Ed Herling fu di fatto messo al bando. Un ostracismo destinato a durare molto a lungo visto che ancora oggi le maggiori enciclopedie italiane quasi ignorano il suo nome. Le principali opere di divulgazione non gli dedicano alcuna voce autonoma: dall'Enciclopedia Zanichelli alla Grande Treccani, dall'Enciclopedia Rizzoli-Larousse al Dizionario della Letteratura del Novecento di Einaudi alla Grande Enciclopedia Utet, fino all'Enciclopedia della Letteratura Garzanti. Solo due anni fa la Piccola Treccani dedicò una certa attenzione a Herling all'interno della voce dedicata alla letteratura polacca, definendolo come uno dei "migliori rappresentanti" della narrativa polacca dell'ultimo mezzo secolo. Per rimediare alla assenza di Herling dalle opere enciclopedie, di recente la Treccani ha annunciato che la biografia di Herling comparirà nell'aggiornamento del Lessico Universale Italiano. Con quarant'anni di ritardo. Geno Pampaloni, uno dei decani della critica letteraria italiana, è stato tra i primi a denunciare lo scandaloso silenzio. "Non so spiegarmi come sia possibile una cosa del genere - affermava nei giorni scorsi- visto che siamo di fronte ad un autore prolifico, di grande qualità, di fama mondiale e molto onorato nel suo Paese natale. Una pregiudiziale ideologica nei confronti di Herling? Non ne ho le prove, nè lo escludo. Certo è che ogni tipo di censura, anche indiretta, è condannabile". Avesse chiesto al diretto interessato, anche Pampaloni avrebbe avuto la sua risposta sul perché della censura. "E' il frutto - ripeteva spesso Herling - del silenzio imposto dall'intellighenzia comunista sulla mia opera. Hanno fatto di tutto per farmi sentire un lebbroso, ma non ci sono riusciti". La cultura dominante italiana, insomma, non lo amava. E gli intelletuali militanti lo detestavano. Nemmeno tanto cordialmente. "Paese Sera", giornale vicino al Pci, arrivò a chiedere che "quell'anticomunista" fosse sbattuto fuori dall'Italia. Ma poi per fortuna furono i lettori italiani a sbattere "Paese Sera" fuori dalle edicole. Non è dunque un caso se per quarant'anni "Un mondo a parte" è stato in Italia un volume pressochè clandestino: stampato due volte ma introvabile nelle librerie, perchè non distribuito. Il libro, tradotto da tempo in numerose lingue, è arrivato nelle rivendite italiane solo nel 1994 e il merito è della Feltrinelli. Dopo la pubblicazione a Londra nel 1951, "Un mondo a parte" fu pubblicato dalla casa editrice Laterza nel 1957, su segnalazione della famiglia di Benedetto Croce, di cui lo scrittore polacco era genero. La casa barese scelse però di distribuirne pochissime copie, anzi quasi nessuna. Nel 1965 il libro fu ripubblicato da Rizzoli che si impegnò a non lasciarlo nei magazzini, "Ma anche allora si capì che non era aria", ha raccontato recentemente Paolo Mieli, oggi direttore editoriale della Rcs, a cui si deve un anno fa la rivelazione dell'ultima clamorosa censura di Einaudi ai danni di Herling.
Ecco il commento di Diego Gabutti, in esclusiva per IC, su Robert Conquest e lo stalinismo:
Diego Gabutti
Ecco il link alla pagina dedicata ieri a Robert Conquest:
Inglese, professore alla Columbia e a Stanford, diplomatico a Sofia e New York, autore negli anni sessanta del classico Il grande terrore, BUR Rizzoli 1999, Robert Conquest dedicò la vita a raccontare la storia veridica dell’Unione sovietica, del Secolo delle idee assassine (Mondadori 2002) e del Grande Cannibale (Stalin, Mondadori 2002). Come sul comunismo, e sul Terrore degli anni trenta, anche sulla figura di Stalin c’è ormai poco da aggiungere. Davvero aiutò Lenin, il suo maestro, a togliere il disturbo con una pasticca di cianuro (come spettegolava Trotzky nel libro che stava scrivendo, una biografia del suo arcinemico e semblable, quando fu ucciso in Messico da un killer stalinista)? Fu davvero un agente della polizia segreta zarista come si è sempre mormorato (e come suggerisce anche Solženicyn nel romanzo che gli valse il Nobel, Nel primo cerchio, di cui è finalmente uscita, con qualche decennio di ritardo, la traduzione italiana integrale, Voland 2018)? Non lo sapremo mai. Caduto il comunismo, resi più o meno pubblici gli archivi di stato sovietici, non è saltato fuori niente di nuovo, per quanto Conquest e altri storici li abbiano frugati per lungo e per largo: Stalin ha provveduto a cancellare le tracce, se ce n’erano, e a eliminare i testimoni, se ne era sopravvissuto qualcuno, molto tempo fa. Mostro generato dal sonno della ragione socialista, terrorista fanatico, divoratore d’anime a milioni, Stalin non è del resto un uomo che possa essere raccontato attraverso la sua storia personale, se pure fosse possibile ricostruirla. Stalin e la storia del comunismo coincidono: la sua vera biografia è Il grande terrore, l’immane mattanza degli anni trenta, che da noi è stato sempre banalizzato (più di quanto i negazionisti, tifosi di Hitler, abbiamo mai banalizzato la Shoa). Stalin e il suo sistema poliziesco chiavi in mano, imposto tale e quale ai popoli di mezzo mondo tra la fine della seconda guerra mondiale e il crollo del comunismo, non hanno mai sfondato nei cataloghi degli editori italiani. Che Stalin, millantato a lungo nelle storiografie ufficiali come un semplice incidente di percorso sulla strada impervia del socialismo, fosse in realtà la chiave di volta della storia del socialismo, il suo nocciolo duro e il suo segreto di Pulcinella, naturalmente lo sapevano tutti, compresi gli stalinisti residui e inveterati, che ancora negli anni settanta e ottanta non si lasciavano scoraggiare nemmeno dall’horror film maoista e dai massacri di Pol Pot. Da quest’orecchio, fino a pochi anni fa, la cultura italiana ufficiale, la sua editoria chic e i suoi maîtres à penser hanno sempre finto di sentirci poco e male. In prima edizione, per dire, Il grande terrore di Conquest fu pubblicato da un editore di destra, oscuro e marginale, praticamente un samidatz. Prima d’essere finalmente ristampato, ma senza che nessuno si facesse fretta, da Mondadori e Rizzoli, il libro di Conquest (un cult della storiografia moderna) ebbe scarsa diffusione, a differenza delle storie del comunismo pesantemente ritoccate e taroccate, per esempio la Storia del Partito comunista italiano di Paolo Spriano, che per anni hanno infestato i banconi delle librerie. Persino le biografie di Stalin scritte da marxisti in odore d’eresia, a cominciare dal classico Stalin di Boris Souvarine, Adelphi 2003, scritto negli anni trenta, non soltanto prima del XX congresso del PCUS ma addirittura prima delle grandi purghe, erano malviste e ignorate dagli editori. Per leggere Souvarine, un autore che alla storia dello stalinismo dedicò a sua volta, come Conquest, tutta una vita onorata, abbiamo dovuto aspettare che Adelphi, all’epoca considerato un editore decadente e degenere, lo traducesse negli anni ottanta. Un altro classico dell’antistalinismo marxista, lo Stalin d’Isaac Deutscher, biografo di Trotzky e a sua volta storico dello stalinismo, uscì da Longanesi verso la metà degli anni sessanta e fu ristampato soltanto vent’anni dopo. Di Stalin e della sua trucida epopea, questione forte, questione seria, ai nostri intellettuali di grido, di solito attentissimi alle questioni da nulla, non poteva importare di meno. C’era stata la destalinizzazione e quindi per loro il discorso era chiuso. A che pro tornarci sopra? Problemi esotici, fatti remoti. C’era il rischio, inoltre, che l’ombra proiettata da Stalin sul Novecento oscurasse il sole libero e giocondo del loro marxismo-leninismo da operetta pia. Meglio pensare ad altro. Robert Conquest e gli altri storici senza devozioni raccontavano una storia (lo sterminio dei kulaki, il gulag, l’apocalisse economica, le carestie pilotate e le deportazioni di popolazioni intere, l’alleanza con Hitler) che le leggi bronzee del divenire non prevedevano e che le grandi firme dei giornali devoti preferivano ignorare. (Una grande firma su tutte: Umberto Eco, che nei primi anni settanta definì Solženicyn, all’epoca ancora nelle mani del KGB, «un Dostoevskij da strapazzo»).