Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 30/12/2018, a pag. 8 e 19 due servizi sulla strage in Egitto
L'attacco al pulman dei turisti
Francesca Paci: "Risposta all'attacco di Giza, l'Egitto uccide 40 terroristi"
Francesca Paci
La risposta egiziana non si fa attendere. A poche ore dalla bomba artigianale che venerdì sera ha fatto esplodere un pullman di turisti vietnamiti diretto alle piramidi di Giza ammazzando 4 persone e ferendone 11, le autorità del Cairo diffondono le immagini di 30 presunti terroristi con il volto coperto e le armi in pugno freddati a stretto giro nello stesso quartiere dell’agguato. Durante i diversi blitz scattati ieri all’alba, altri 10 sospettati sono stati eliminati nel governatorato del Sinai del Nord, a ridosso della Striscia di Gaza. «Non è possibile affermare se i miliziani uccisi fossero direttamente coinvolti nell’attentato», ammettono fonti del ministero dell’Interno. Aggiungono però di sapere che quegli uomini stavano organizzando una serie di attacchi contro enti dello Stato, forze armate, zone turistiche e chiese cristiane copte. E nell’Egitto che da cinque anni combatte una guerra a bassa intensità e altissimo numero di vittime contro gli jihadisti che incalzano tanto dal Sinai quanto dal confine libico, può bastare anche molto meno. Sono ore concitate nel grande Paese nordafricano a cui Papa Francesco ha inviato un telegramma di cordoglio e una preghiera per le vittime. Quello di due giorni fa è stato il primo attentato contro i turisti stranieri da oltre un anno (l’ultimo risale a luglio 2017 a Hurghada), ma nel frattempo sono accadute molte cose. All’inizio di novembre l’Isis ha rivendicato il raid sanguinario contro 3 autobus di fedeli in pellegrinaggio al monastero di San Samuele, a Minya. Poco più di un anno fa era toccato ai sufi, colpiti a morte nella moschea del villaggio di Bir alAbed, nel Sinai (allora le vittime furono oltre trecento tra cui molti bambini). E poi ancora, a pochi giorni dal Natale copto dello scorso anno, le raffiche esiziali nella chiesa di Mar Mina, a Helwah, miserrima periferia cairota. Un’escalation, sebbene concentrata su protagonisti non occidentali e dunque meno visibili, a cui va associata l’operazione «Sinai 2018», la più lunga missione anti-terrorismo della storia militare egiziana contemporanea lanciata a febbraio dal presidente Al Sisi con l’impiego massiccio di esercito e polizia, un’offensiva che secondo l’ufficio stampa del governo - l’unica fonte giornalistica ammessa nella regione - ha ucciso oltre 450 jihadisti in sei mesi ma che secondo Human Rights Watch ha invece messo sotto assedio 420 mila residenti, privati di scuole, elettricità, aiuti. Il terrorismo è una vecchia conoscenza dell’Egitto che in passato, sulla scia degli insegnamenti di Sayyid Qutb, ha giocato spregiudicatamente in bilico tra eversione e consenso popolare. La situazione però si è aggravata dopo il 2011, le primavere arabe, la richiesta di libertà da parte dei giovani e l’abilità di appropriarsene degli islamisti. Una miscela di ambizioni democratiche, impreparazione politica, capri espiatori e malafede. Da allora il Sinai è l’avanposto della riscossa salafita combattente, Ansar al Jihad, Al Qaeda nella penisola del Sinai. La deposizione di Morsi, la messa al bando dei Fratelli musulmani e l’avvento dell’era Al Sisi, hanno inasprito la sfida ancora di più elevando la sicurezza nazionale al di sopra di tutto, compresa la legge. La lotta al terrorismo, un nemico insidioso che marca da più fronti, giustifica qualsiasi eccesso: è con questa spiegazione che tre anni fa, l’esercito argomentò con tante scuse il raid contro il pulmino di turisti messicani intercettato nel deserto al confine con la Libia e scambiato per un commando (le vittime furono 12). L’agguato di venerdì sera alla comitiva vietnamita diretta ad un ristorante dopo la visita alle piramidi di Giza va letto in questo quadro. Chiunque sia stato a piazzare la bomba, che al momento non è stata ancora rivendicata. Da una parte c’è l’establishmente politico e militare rappresentato dal presidente Al Sisi, alla ricerca di un escamotage per restare al potere oltre il secondo mandato previsto come limite e forte di una nuova legittimità internazionale seguita all’elezione di Trump, all’amicizia con Putin, ai nuovi investimenti stranieri nel Paese. Dall’altra c’è una popolazione che morde il freno, perché dopo aver dato carta bianca ad Al Sisi sul ritorno all’ordine costi quel che costi in termini di libertà in cambio del rilancio economico, si ritrova con l’inflazione galoppante, il pound svalutato come mai prima, i prezzi alle stelle. Il turismo, l’11% del Pil, aveva fatto baluginare la speranza con quegli 8,2 milioni di visitatori del 2017 che se non erano i 14,7 milioni del 2010 promettevano però un rilancio. L’Egitto resta in mezzo al guado
Stefano Stefanini:"Egitto, guerra al terrore per salvare il turismo"
Stefano Stefanini
A ll’indomani dell’11 settembre George Bush dichiarò «guerra al terrore». Lasciamo da parte gli errori d’esecuzione (Iraq). Aveva visto giusto. Guerra è, e non solo americana. L’ultimo campo di battaglia è stato l’Egitto. I terroristi hanno colpito un ganglio vitale dell’economia, il turismo; il governo ha risposto con un’azione bellica contro due presunte basi del nemico. Nulla di sottile né nella botta né nella risposta. Come in guerra appunto. Il terrorismo ha dei «brand» internazionali (Isis, Al Qaeda, Boko Haram) ma prolifica nelle varianti locali, dalle «banlieues» urbane in Europa, ai picchi dell’Hindu Kush, ai grandi spazi del Sahara. In Egitto ha anche fatto propria l’agenda politica dei Fratelli Musulmani spodestati dalla dura presa di potere di Abdel Fattah al-Sisi. La mano che ha messo la bomba sotto il pullman dei turisti vietnamiti non ha rivendicato l’attentato. La rappresaglia è scattata ugualmente. Per il Cairo i bersagli colpiti sono in campo nemico. Questo è quanto basta. Sul metro dello stato di diritto, e del rigore d’intelligence, i raid delle forze di sicurezza egiziane a Giza (in prossimità dell’attentato) e a El-Arish nel Sinai fanno sorgere domande imbarazzanti. Se la minaccia era nota e identificata, perché intervenire dopo anziché prima? Il numero (40 terroristi uccisi) ne fa un’esecuzione di gruppo senza parvenza di processo. Tuttavia, in una situazione di guerra in corso, l’azione egiziana ha una logica per brutale che sia. Il contesto bellico in cui si muove il Cairo non è diverso da quello dell’Afghanistan o della Nigeria (o da quello che sarebbe la Libia ove vi si fosse radicato lo Stato islamico); o, per molti aspetti, dal controterrorismo «mirato» dei droni americani in Yemen o in Somalia, o di quelli israeliani contro Hamas e Hezbollah. In uno dei più bei libri scritti sulla lunga tragedia dell’Afghanistan, Guerre Fantasma, Steve Coll racconta come Bill Clinton annullò un’operazione che avrebbe potuto eliminare Bin Laden perché ci sarebbero potute essere vittime civili (fu fermato dall’immagine di un’altalena). Oggi, dopo l’11 settembre nessun Presidente americano esiterebbe - sapendo di essere in guerra. Con l’attentato di Giza i terroristi prendevano due piccioni con una fava. Colpivano il turismo straniero in alta stagione; mettevano in allarme la comunità cristiana copta, altro loro bersaglio fisso, dieci giorni prima del Natale ortodosso (7 gennaio). La replica militare del Cairo ha cercato di pareggiare il conto: eliminando capacità offensive avversarie; rassicurando visitatori e comunità copta. Se sarà stata efficace sul primo versante, il governo egiziano può limitare, se non completamente eliminare, i danni su quello dei visitatori stranieri e proteggere meglio le chiese copte durante le prossime festività. L’offensiva terroristica contro il turismo è strategica. L’Egitto aveva toccato un record di 14 milioni di visitatori nel 2010, prima delle primavere arabe; ha toccato il fondo con 5,3 nel 2016, dopo l’attentato al jet russo a Sharm el-Sheikh; si sta faticosamente riprendendo (8,3 nel 2017). Il fattore tempo era fondamentale. Il Cairo ha risposto prima delle cancellazioni dei tour operators. In Europa, le raccomandazioni dei siti «viaggiare sicuri» restano per ora immutate. Possiamo solo sperare che l’azione controterroristica abbia colpito nel segno e non sia soltanto uno sfoggio militare alla cieca. Non soltanto per l’incolumità dei nostri turisti. Perché la guerra in corso in Egitto riguarda tutti noi. Mutuando da Trotskij, anche se non siamo interessati alla guerra, la guerra è interessata a noi.
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