E' morto Amos Oz, riprendiamo oggi 29/12/2018, gli interventi di Fiamma Nirenstein, sul GIORNALE, Deborah Fait, su INFORMAZIONE CORRETTA, Elena Loewenthal sulla STAMPA
Amos Oz 1939-2018
I libri di Amos Oz sono pubblicati in italiano da Feltrinelli: Conoscere una donna (2000), Lo stesso mare (2000), Michael mio (2001), La scatola nera (2002), Una storia di amore e di tenebra (2003), Fima (2004), Contro il fanatismo (2004), D’un tratto nel folto del bosco (2005), Non dire notte (2007), La vita fa rima con la morte (2008), Una pace perfetta (2009), Scene dalla vita di un villaggio (2010), Una pantera in cantina (2010), Il monte del Cattivo Consiglio (2011), Soumchi (2013), Giuda (2014), Gli ebrei e le parole. Alle radici dell’identità ebraica (2013; con Fania Oz-Salzberger) Altrove, forse (2015), Tocca l’acqua, tocca il vento (2017) e Cari fanatici (2017), Finché morte non sopraggiunga (2018).
Il Giornale-Fiamma Nirenstein:" Oz, la 'Forza' di raccontare una vita d'amore e di tenebra"
Fiamma Nirenstein
Sì, il Premio Nobel l'avrebbe dovuto ricevere, perché i suoi libri sono meravigliosi quali che siano le idee di chi legge, la sua lingua originale è radicata nella Bibbia con un piglio polemico di pensatore laico (come Agnon scriveva in piedi sul leggìo), i suoi pensieri d'amore sono intricati e spietati come quelli di Shakespeare, la sua grinta conoscitiva è stata quella di un Faust, il suo odio per la guerra appassionato ma consapevole della furia inevitabile dei nemici. È stata una spina per lui non aver ricevuto il premio, ma era troppo israeliano perché Stoccolma lo premiasse. Amos Oz lascia il mondo a 79 anni dopo una lunga malattia, per gli italiani era lo scrittore di sinistra che insieme a Abraham B. Yehoshua e a David Grossman era degno di occupare gli scaffali nonostante fosse israeliano, perché era pacifista e critico verso il proprio Paese. Ma Oz era ben più di questo. Il pacifismo è stato davvero una parte piccola di Amos Klausner, nato a Gerusalemme nel 1939, cresciuto da Fania, la madre polacca colta e raffinata, e da Yehuda Arieh Klausner, nato in Lituania. Amos - che ho avuto la ventura di incontrare varie volte - era troppo persino alla vista, era la bellezza e la profondità impersonificate, quello che il sionismo ha voluto rappresentare al suo meglio: la risposta del popolo ebraico alle persecuzioni millenarie, alla Shoah, alla morte. In una vita conclusa nel deserto del Negev, la personalità così perfetta da farsi talora altezzosa di Amos Oz ha prodotto 40 libri tradotti in decine di lingue, 450 articoli e saggi, ha ricevuto 64 fra premi letterari, lauree e riconoscimenti ad honorem. Amos a 15 anni, dopo un'infanzia nell'involucro della élite ashkenazita intellettuale e guerriera capace di fondare fra mille difficoltà economiche e belliche lo Stato d'Israele, decide di andare a stare nel kibbutz Hulda e lascia Gerusalemme. È là, nel distillato della tzionut, il sionismo vissuto per trasformare un popolo oppresso e perseguitato in un popolo vivente e vincente che Oz, il cui nuovo nome significa «Forza», con intensità titanica si libera dalla sofferenza che ha invaso la sua vita e intraprende la strada della scrittura. «Avrei voluto essere un architetto - disse una volta - ma il destino mi ha voluto scrittore. Diventi scrittore a causa di una ferita. Ci sono quelli che per questo divengono criminali, o santi. Per me è andata così, le parole sono diventate la mia strada, la mia storia». Le ferite di Amos Oz, oltre a quella generale della guerra permanente che ha combattuto nel Nahal, l'unità che insieme alle armi pratica l'ideale del senso di comunità e fratellanza, nella guerra del Sei Giorni e in quella del Kippur, sono state terribili. La madre, in preda a depressione, si suicidò all'età di 52 anni quando Amos ne aveva 12 e il padre, scrive Oz in Una storia di amore e di tenebra, «l'11 ottobre 1970, quattro mesi dopo il suo sessantesimo compleanno, si alzò come al solito di buon mattino... si fece la barba, si profumò si umettò i capelli prima di spazzolarli all'indietro, mangiò un panino spalmato col burro... lesse il giornale e sospirò varie volte... si annodò la cravatta... parcheggiò... comprò... scherzò con la proprietaria, pregò di salutare il caro marito... raggiunse la porta e cadde morto sul colpo. La sua scrivania l'ho ereditata io, su di essa sono state scritte queste pagine senza una lacrima dal momento che mio padre era contrario di principio alle lacrime». «I miei libri cominciano tutti con i morti» diceva Amos Oz. E di fatto il suo afflato metafisico che fa sempre da contrappunto al racconto piano, quasi elementare, è il segreto dei suoi capolavori come Una storia di amore e di tenebra o Michael mio, dove sullo sfondo di una difficile storia di coppia splende una Gerusalemme miracolosa, cupa e luminosa, coi suoi cipressi neri e i suoi cieli vicini. Cominciò in kibbutz con Terra dello sciacallo, poi Il monte del cattivo consiglio, Una pace perfetta, La scatola nera, Conoscere una donna, Fima, Non dire notte... e quanti altri ne abbiamo amato. Intanto molti lo amavano per le sue idee politiche, chi scrive pensava che la sua insistenza, le firme, i documenti, gli attacchi al governo, per quanto certo motivati in modo alto, apolitico, erano tuttavia articolati in modo così poco ragionato, così social da apparire invece che un elemento di forza della sinistra, un segnale della sua evidente fragilità. Ma Amos Oz incarnava Israele. «Quando abbandonai casa per andare a vivere in kibbutz... annotai su un foglietto alcune decisioni cruciali... dovevo cominciare riuscendo ad abbronzarmi entro due settimane, diventando d'aspetto uguale al loro; dovevo smettere una volta per tutte di sognare ad occhi aperti, cambiare il mio cognome, fare la doccia con l'acqua fredda... non scrivere più poesie, piantarla di blaterare tutto il giorno e di raccontare a tutti le mie storie e invece apparire una persona molto taciturna». Così da ragazzino Amos si figura l'identità israeliana, dura, silente, lavoratrice. E benché silenzioso non sia davvero divenuto, per il resto con questo volto da kibbutznik celestiale e duro ha saputo davvero incarnare l'ideale della «bella Israele» che di giorno lavora i campi e di notte scrive romanzi, che sogna la pace e deve fare la guerra. Nel tempo resterà di lui l'uso magnifico delle parole, la pregnanza umana della storia d'Israele come parabola d'amore e di tenebra, e la vergogna di un premio Nobel che non gli fu assegnato.
Informazione Corretta- Deborah Fait "Amos Oz, il talento e l'utopia"
Deborah Fait
Non andavo d'accordo con Amos Oz, gli scrissi varie volte e lui mi rispose sempre, da quell' uomo educato che era. Era convinto di poter fare la pace con gli arabi palestinesi e si illudeva talmente tanto da mentire a se stesso. Una delle sue risposte alle mie contestazioni fu "La penso come te ma dobbiamo cercare in tutti i modi di arrivare alla pace". A quale pace pensasse è un mistero, dopo tutte le esperienze tragiche vissute con i palestinesi. Era un uomo leggero e sorridente, credeva nell'umorismo, come disse durante un'intervista con Fabio Fazio in occasione della presentazione del suo romanzo "Giuda", credeva che dare una pillola quotidiana di Sense of Humor ai fanatici avrebbe sconfitto il terrorismo. Un illuso, un sognatore che, forse senza rendersene conto, diede ai filoarabi di tutto il mondo la scusa per odiare quell'Israele che non seguiva i suoi consigli di pace a tutti i costi, anche di fronte all'annientamento. Lui era l'ebreo buono, tutti gli altri, quelli che volevano difendere Israele tutto intero, erano gli ebrei cattivi. Fu molto criticato, anche da me, quando mandò al terrorista ergastolano Marwan Barghouti, il suo libro "Una storia di amore e di tenebra", fu accusato di tradimento e questa macchia gli rimase incollata addosso anche se, pare, lui se ne fregasse altamente. Mandare a un pluriassassino del proprio popolo un libro con dedica è stato un atto incomprensibile, mi auguro se ne sia pentito anche se non lo ha mai ammesso. Mi ha sempre fatto infuriare la consapevolezza che rifiutasse di capire quanto il terrorismo degli arabi fosse dovuto NON a frustrazione ma all'odio senza confini che hanno sempre provato per gli ebrei e per Israele. Il suo limite fu di non credere alle ragioni di Israele e di voler considerare come vittima il nemico che, a parer suo, ammazzava ebrei perchè povero e sottomesso. Questo è purtroppo un pensiero comune in molte ONG sinistroidi israeliane e non, tipo l'orrida B'Tselem che Oz difendeva a spada tratta. Come la maggior parte delle persone di sinistra colpevolizzava il proprio paese per sentirsi solidale con coloro che interpretavano come grandi attori il ruolo dei poveretti maltrattati dalla potenza sionista. Amava Israele ma non era un patriota, avrebbe rinunciato volentieri a parte del paese nell'illusione di trasformare il nemico in amico, l'odio in amore, il terrorista in alleato. Utopie malate e soprattutto pericolose. La fortuna è che Amos Oz non abbia mai intrapreso la carriera politica, se lo avesse fatto e, data la sua popolarità, fosse diventato premier, probabilmente Israele non esisterebbe più come stato degli ebrei ma come ennesimo stato arabo. Mi è sempre risultato inspiegabile come persone intelligenti, intelligentissime e colte, possano considerare un nemico che non fa altro che ammazzare e distruggere, come possibile alletato nella pace. Amos Oz ha vissuto in Israele tutta la sua vita, ha visto i morti, ha partecipato alle guerre, ha visto bambini linciati come accadde a Tekoa dove Kobi Mandell e Yosef Ishran, tredicenni, che furono fatti a pezzi mentre giocavano. Ha visto neonati come Shalhevet presi di mira dai cecchini palestinesi, ha visto mamme pugnalate al ventre, ha visto famiglie intere con bambini piccoli massacrati mentre transitavano in macchina. Come chiunque in Israele, Amoz Oz ha vissuto queste e tante altre tragedie compiute da quelli che lui chiamava "vittime della frustrazione". Avrà seguito gli orribili attentati organizzati da Arafat e altri boss del terrorismo arabo-palestinese in Europa, la strage di Monaco, l'assassinio di Stefano Tachè a Roma, gli aerei esplosi a Fiumicino, i dirottamenti. In Israele saltavano in aria autobus e ristoranti con migliaia di vittime di ogni età. Come poteva pensare che quelle belve sarebbero diventate amichevoli? Sono convinta che, nel suo intimo, non lo credesse possibile, sapeva e riconosceva la crudeltà delle guerre e del terrorismo arabo eppure lui continuava a credere, cocciutamente, nell'empatia e nella tolleranza, infatuato irresponsabilmente da una pace impossibile o, forse, dal desiderio di essere popolare nel resto del mondo. E' un peccato davvero grande che avesse buttato alle ortiche quei suoi nobili sentimenti, rivolgendoli a chi non avrebbe meritato che il suo disprezzo. Pensando invece allo scrittore, al suo enorme talento, alle sue opere, mi stupisce e mi indigna che non sia mai stato candidato al premio Nobel per la letteratura. Il suo capolavoro assoluto "Una storia di amore e di tenebra", che ricorda i grandi autori russi, con uno stile lineare, conciso, accurato nei minimi particolari, avrebbe meritato il massimo riconoscimento. Pensando ai suoi libri, uno mi viene alla mente per il titolo e la storia che potrebbe sembrare una premonizione "Finchè morte non sopraggiunga", la storia di un uomo che, di fronte al proprio declino, constata di aver perduto molte occasioni. Per Amos Oz l'occasione di non aver usato il proprio talento per seppellire intellettualmente i nemici di Israele, cosa che, con la sua preparazione, avrebbe potuto fare senza sforzo e molto onore. E' stato comunque un grande uomo che ha fatto amare il popolo ebraico da chi aveva il cuore pulito e del quale Israele va orgoglioso. Che la terra gli sia lieve.
La Stampa-Elena Loewenthal: " Amos Oz, la luce nel deserto "
Elena Loewenthal
A mos Oz ci ha lasciato ieri, a settantanove anni. «Se n’è andato nel sonno, serenamente, circondato dai suoi cari», ha scritto sua figlia sui social, poco dopo. Era malato da tempo ma al suo tumore, alle lunghe e sfiancanti cure e alle limitazioni che gli imponeva, alludeva solo ogni tanto con un sorriso quasi ironico, mai vinto. Lui era tutto in quei suoi meravigliosi occhi celesti, penetranti eppure carezzevoli, così profondi, così sapienti, così luminosi: in quegli occhi c’era il bambino timido che viveva in una piccola casa addossata alla roccia di Gerusalemme insieme a madre, padre e una montagna di silenzi, c’era lo sgomento di un tredicenne di fronte al suicidio di colei che l’aveva messo al mondo, c’era l’adolescente ribelle che abbandona il suo mondo e va a costruirne uno nuovo in kibbutz, c’era il giovane uomo che sta scoprendo la propria storia e comincia a scrivere alla fine del turno di lavoro, dopo la mungitura. C’era il grandissimo scrittore che divenne ben presto, fra un turno di lavoro in kibbutz e l’altro, animato da una vocazione che non lo tradì mai, in sessant’anni e più, e migliaia di pagine. In quei suoi occhi si leggevano anche le passeggiate che faceva la mattina prestissimo, prima dell’alba, nel deserto che cominciava proprio accanto a casa sua, ad Arad, nel Neghev, dove si era trasferito nel 1986, «per andare a vedere se c’è qualcosa di nuovo nel deserto». Perché solo così, diceva, prendeva le misure di ciò che conta veramente e di ciò che invece passa come neve al sole. Poi si sedeva alla scrivania, dove teneva sempre due penne di diverso colore. A seconda dello stato d’animo in cui si trovava, usava una o l’altra: «Quando sono al cento per cento d’accordo con me stesso, mi dedico a un saggio, un articolo di giornale, un’invettiva politica». Ma quando era animato dai dubbi, dalle contraddizioni, dalla consapevolezza di quanto la vita sia complessa, e ricca, allora scriveva una storia. Era nato a Gerusalemme il quattro maggio del 1939, figlio di Yehudah Arieh Klausner e Fania Mussman. Illustre famiglia di eruditi quella del padre, originari della Lituania, profondamente «urbani» e lontani dal sionismo socialista ed egualitario, calda e lontana quella della madre, in gran parte travolta dalla Shoah. Figlio unico e prezioso, ma anche fragile parafulmine di dolori inesprimibili, un giorno sua madre decise che vivere non aveva più senso: «Se fossi stato laggiù accanto a lei in quella stanza che dava sul cortile... avrei pianto avrei implorato senza pudore avrei abbracciato le sue gambe e forse fatto finta di svenire e picchiato e graffiato me stesso fino al sangue come avevo visto fare a lei nei momenti di sconforto», scrive alla fine di Una Storia di Amore e di Tenebra, il suo capolavoro più grande, la storia dei suoi primi tredici anni ma anche l’epopea di una Paese che stava nascendo e di una storia, quella ebraica, che stava cambiando drasticamente. Ci aveva messo cinquant’anni, Amos Oz, per raccontare questo dramma e il se stesso che era diventato dopo di allora, ma sua madre Fania abita in quasi tutti i suoi libri, è la figura femminile vaga e indecifrabile, sempre sfuggente, più un’ombra che un personaggio, che a un certo punto della storia, come ne Il Monte del Cattivo Consiglio, prende e se ne va per l’eternità, chissà dove. Sono la rabbia e il dolore e la nostalgia del bambino abbandonato che hanno dato vita a tanta, tanta poesia fra le sue pagine. Come in quello che è certamente il suo romanzo più atipico, Lo stesso mare, un’elegia in forma di narrazione, un po’ in versi e un po’ no, in cui si narra, anche qui, di una donna che non c’è più, e di tanti amori dove però c’è sempre una distanza insormontabile fra chi ama e chi è amato: nel tempo, nello spazio, nel ricordo, nel rimpianto. Poco dopo la morte della madre, il giovane Amos se ne va di casa e si lascia alle spalle tutto il suo mondo per abbracciare una viata nuova nel kibbutz, gli ideali socialisti così invisi alla famiglia del padre e alla sua erudizione. Cambia nome, da Klausner diventa Oz, che in ebraico significa «forza» ma non nel senso di sopraffazione. È la forza dell’animo, della volontà e dell’amore che trovò ben presto laggiù. La sua primogenita l’ha chiamata Fania, come la madre. È diventato scrittore presto, ma a poco a poco: ci ha messo anni ad abbandonare del tutto i lavori manuali che faceva come tutti gli altri membri del kibbutz di Hulda, al centro d’Israele. A poco a poco ha lasciato i campi e la stalla, per restare alla scrivania. E ha scritto tanto, tanti di quei romanzi indimenticabili, pieni di storie e di sentimenti, di quella sapienza di vita che faceva parte del suo straordinario armamentario stilistico. Una prosa sempre perfetta, di una lucidità e di efficacia che colpisce a prima vista e va sempre dritta al cuore: una meraviglia continua, per chi da vent’anni accompagna i suoi libri in italiano. Perché la sua scrittura è proprio come quei due meravigliosi occhi celesti che ti guardavano con una gentilezza intelligente, per dirti: guarda che tante cose le capisco anche se non me le dici. È stato uno scrittore generoso come pochi, perché ha regalato ai suoi lettori tanti libri indimenticabili: dall’ultimo suo romanzo, Giuda a Una pace perfetta, dallo strabiliante La scatola nera a Finché morte non sopraggiunga, due novelle scritte tanti anni fa e solo ora apparse in traduzione italiana. Amava profondamente le parole, ma sapeva abitare anche il silenzio, che cercava la mattina nel deserto ma anche a Tel Aviv dove ha vissuto negli ultimi anni, che incastonava fra una riga e l’altra delle sue storie. «Veniamo dal silenzio e al silenzio siamo destinati a tornare», diceva. Ma quanto, quanto sarà triste per noi il suo, di silenzio, da oggi in poi.
Per inviare la propria opinione:
Il Giornale:02/85661
La Stampa: 011/65681
oppure cliccare sulle e-mail sottostante