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In compagnia di….un buon libro! "Il tunnel" di Abraham B. Yehoshua “La cosa più importante è mantenersi attivi, non si isoli, signor Luria, anche se fa fatica a riconoscere le persone. Non fugga la vita, al contrario. La cerchi, ci sguazzi” Quali emozioni scatena in una persona la presa di coscienza della progressiva perdita di memoria? Come si può arginare il deterioramento della mente e con quali mezzi si può intervenire dinanzi alla disgregazione del pensiero razionale? Sono quesiti che, inevitabilmente, generano disorientamento e timore in chi si scopre all’improvviso estraneo a se stesso. Con questo stato d’animo Zvi Luria, un ingegnere di settant’anni che ha cominciato a smarrire la memoria, e sua moglie Dina, pediatra affermata, accolgono il verdetto del neurologo che, con tatto ma senza mezzi termini, li pone di fronte all’evidenza di una demenza senile senza possibilità di rimedio. (“Abbiamo rilevato un’atrofia del lobo frontale, che potrebbe suggerire una lieve degenerazione neuronale…”). I coniugi Luria però, seppur confusi e smarriti, non si abbattono e ognuno a modo proprio danno battaglia a quella improvvida atrofia del lobo centrale: poiché la velocità di un eventuale processo degenerativo dipende anche da come la persona affronterà la malattia, Dina suggerisce al marito di riprendere la sua attività lavorativa e lo convince a coadiuvare l’ingegnere Assael Maimoni, figlio di un vecchio consulente legale con cui ha lavorato per molti anni, che ora ha preso il posto di Zvi ai lavori pubblici e si sta occupando di progettare una strada segreta nel deserto del Negev. Da qui si dipana una storia commovente che vede un giovane ingegnere alle prime armi collaborare con un anziano capo divisione capace di mettere la propria esperienza e competenza al servizio di un progetto nazionale senza chiedere alcun compenso. E poiché sulla collina dove è destinata a passare la strada vivono alcuni rifugiati palestinesi provenienti da un villaggio nel distretto di Jenin e l’unico modo per preservare le loro abitazioni è la costruzione di un tunnel nel cratere Ramon senza livellare la collina, Zvi Luria si batterà al di là di ogni logica politica ed economica per portare a termine questo progetto trascinando il lettore nel cuore del conflitto israelo-palestinese. Emerge quindi nel libro la dimensione politica delle opere dello scrittore israeliano, apprezzato in Italia oltre che per l’intensità della sua scrittura anche per le analisi rigorose sulla situazione politica e sociale d’Israele. In quest’ultimo romanzo Yehoshua affronta il tema dell’identità collettiva allacciando la storia complessa di due popoli che tentano di convivere fra mille difficoltà con la questione della perdita di memoria dinanzi alla quale un uomo ancora nel pieno delle forze fisiche si confronta con la propria vulnerabilità. Chi ha letto lo straordinario libro di Lisa Genova “Perdersi” (Piemme) o chi conosce l’inesorabile sviluppo della demenza senile non si stupirà dinanzi alla caparbietà con cui Zvi Luria si rifiuta di arrendersi al declino, sforzandosi in ogni modo di ricordare nomi e luoghi conosciuti, scrivendo su un taccuino numeri o codici importanti e neppure dinanzi alla dedizione e alla forza d’animo manifestate dalla moglie per combattere la malattia. Se Dina si ispira a Ika la moglie dell’autore scomparsa due anni fa durante la stesura del romanzo, il personaggio di Zvi Luria ricorda la triste vicenda di un altro maestro della letteratura israeliana, Yehoshua Kenaz, i cui romanzi pubblicati da Giuntina e molto apprezzati dal pubblico e dalla critica ci hanno regalato storie indimenticabili. In questo romanzo dove si dispiegano le contraddizioni dell’essere umano nell’alternarsi fra il dramma di una famiglia di rifugiati e quello di un uomo che vede disgregarsi il suo passato di ricordi, la costruzione del tunnel assume una valenza positiva. Perché – come spiega Yehoshua in un’intervista – “il tunnel è un’espressione di pietà, di empatia, del desiderio di risolvere il problema israelo-palestinese, cercando di farlo in maniera indiretta, anche illegale: in un certo senso, perché non è lecito scavare un tunnel se non è necessario. Ma viene fatto per aiutare queste persone a sopravvivere sulla collina”. Finchè morte non sopraggiunga di Amos Oz La misura breve del racconto, una forma narrativa che ben si adatta alla scrittura di Amos Oz, autore israeliano fra i più apprezzati in Italia, trova espressione nella raccolta di due testi pubblicati in Israele negli anni Settanta e ora tradotti da Elena Loewenthal per la casa editrice Feltrinelli col titolo “Finchè morte non sopraggiunga”. Seppur ambientate in due periodi storici diversi sia dal punto di vista temporale che spaziale – il primo “Amore tardivo” negli anni Settanta dopo la Guerra dei Sei Giorni, il secondo che dà il titolo alla raccolta nel 1096 all’epoca delle Crociate – le vicende sono accomunate da un unico filo tematico: l’odio per l’ebreo che si manifesta con il suo corollario di persecuzioni, crudeltà e pregiudizi di matrice cristiana. Da qui la necessità dello Stato d’Israele come àncora di salvezza e di redenzione per il popolo ebraico. Entrambi di straordinaria attualità, i racconti mettono al centro della scena l’umanità ritratta con le sue debolezze fisiche e morali, le sue pulsioni, i drammi e le contraddizioni insiste nell’animo umano. Ambientato a Tel Aviv “Amore tardivo” ci narra la storia di Shraga Unger un ebreo che dall’ Europa orientale dove ha partecipato alla rivoluzione comunista è stato costretto a fuggire a causa dell’antisemitismo che pervadeva la società russa e in Israele è un conferenziere che si sposta da un kibbutz all’altro per informare, con toni sempre più allarmanti, sulla situazione degli ebrei che vivono ancora in Unione Sovietica. Ossessionato dal complotto bolscevico, che immagina pronto a sterminare l’intero popolo ebraico, Unger si sottopone a una rigorosa routine quotidiana leggendo compulsivamente tutti i giornali e ascoltando tutti i notiziari del giorno, mentre piano piano il corpo si indebolisce e la mente è preda di pensieri cupi e malinconici. Per l’anziano conferenziere inoltre è sempre più difficile farsi ascoltare dai giovani che non hanno conosciuto la Storia di Israele ma non vuole farsi da parte e lasciare quel compito che lo appassiona ancora alle nuove generazioni. E intanto vagheggia eserciti ebraici che marciano verso l’Urss e la Polonia dei ghetti immaginando anche la costruzione di un missile che consenta al popolo ebraico di raggiungere una qualche altra galassia in cui ricostruire una “Gerusalemme celeste” circondata da acqua, vento, luce e silenzio in cui trovare finalmente la pace e una serenità assoluta e definitiva. Con questi pensieri Unger continua a lottare consapevole che Israele rappresenta la salvezza per l’universo intero fino all’epilogo che rimetterà in gioco emozioni e sentimenti mai sopiti. La tematica ebraica è al centro anche del secondo racconto “Finchè morte non sopraggiunga” ambientato in Francia nel 1096 al tempo delle crociate come quella che il conte Guillaume de Touron organizza con un gruppo di uomini accogliendo l’appello del Papa. Accompagnato dallo stalliere, Claude Spallastorta, un individuo ombroso ed enigmatico, il conte aspira a raggiungere la purezza e la redenzione a Gerusalemme ma la sua mente è abitata da pensieri di morte e dal desiderio di raggiungere il regno degli elementi semplici: il fuoco, la luce e il vento. Durante il viaggio che si rivela fin dall’inizio periglioso si convince che uno spirito maligno, un ebreo ovviamente, si nasconda in incognito fra i membri della spedizione. E appena incontrano un viandante ebreo che, consapevole del suo destino, si offre di consegnargli ciò che chiedono lo rapinano e lo torturano a morte. Un senso di tragedia imminente si stende sui componenti la spedizione, tormentati da malattie e pensieri cupi fino all’arrivo in un monastero abbandonato in cui tentano invano di riprendere le forze dopo aver compiute razzie e nefandezze di ogni genere. Divorato da un desiderio di purezza e di spiritualità che non riesce a soddisfare il conte Guillaume de Touron sente crescere in lui un’avversione profonda verso la carne e verso l’ebreo, il nemico per eccellenza nella dottrina cristiana, un odio distruttivo che lo condurrà a un epilogo cruento. Due storie queste raccolte nel libro di Amos Oz che, seppur collocate in periodi storici lontani l’uno dall’altro, sono caratterizzate da un comune senso di tragedia che incombe sulla terra di Israele ieri come oggi e dove accanto a considerazioni sulla vita, la morte, la guerra, l’amicizia, l’amore permane indistruttibile l’odio verso l’ebreo, il pregiudizio nei confronti di chi è diverso da noi. Da un’ Europa arcaica culla della nostra identità a un Israele moderno i racconti di Amos Oz ci conducono a riflettere sulle occasioni perdute, sulla difficoltà di vivere e sul bisogno di trovare un senso alla nostra esistenza. Il tutto narrato con un ritmo narrativo elegante, preciso e con uno stile raffinato nella scelta delle parole, capace di fotografare paesaggi e sentimenti e di catturare il lettore dalla prima all’ultima pagina. |
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