Che si chiami Kadima (Avanti) o Achraiut (Responsabilità) il nuovo partito di Ariel Sharon è in testa a tutti i sondaggi. Come avevamo scritto l’altro giorno in politica il coraggio vince. Ma Sharon è andato oltre, anticipando ai giornali quale sarà il suo impegno prioritario insieme alla sicurezza e alla lotta contro il terrorismo. “ Arriveremo a dare a Israele i confini che finora ci sono stati negati dall’intransigenza dell’estremismo arabo”, ha dichiarato. Pochi sanno che Israele è l’unico paese al mondo privo di confini riconosciuti. Che non sia una sua scelta lo dimostrano Giordania ed Egitto, due stati che hanno con Israele un trattato di pace e quindi il reciproco riconoscimento. Se i palestinesi, sotto la guida di una leadership non più votata al terrorismo com’era con Arafat, arriveranno a firmare la pace con lo stato ebraico, il primo banco di prova per suggellare l’accordo sarà la definizione dei confini.
Ne abbiamo discusso con il professor Sergio Della Pergola, che insegna demografia e statistica all’Università ebraica di Gerusalemme, di origini milanesi come ci ricorda il suo cognome, uno degli scienziati che più hanno contribuito a modificare il corso della politica israeliana. Sono state infatti le sue ricerche ad avere influenzato le scelte del governo Sharon nei confronti della questione palestinese. L’uscita da Gaza e l’abbandono degli avamposti in Cisgiordania più isolati e meno abitati, discendono direttamente dalle sue analisi. Per rimanere uno stato democratico ed ebraico la separazione fra ebrei e palestinesi è condizione indispensabile e l’unico modo per garantirlo in modo democratico e favorire così la nascita di uno stato palestinese. Sharon non ha affatto tradito gli ideali del Likud, molto più semplicemente ha capito che la questione politica era diventata prepotentemente condizionata da quella demografica. Da qui il suo cambiamento di rotta.
“Sharon ha voluto incontrarmi diverse volte “, ci dice il prof. Della Pergola, “ mostrando grande attenzione e prendendo appunti, cosa rara tra i politici che in genere preferiscono parlare piuttosto che ascoltare”. Come riuscirà Israele a rimanere almeno per l’80% uno stato abitato da cittadini ebrei (come è oggi), così da garantirsi un futuro democratico e dalle finalità identiche a quelle per le quali è nato ? In una situazione così difficile la sinistra israeliana aveva saputo sì offrire soluzioni, tra le quali la costruzione della barriera di sicurezza, ma non aveva mai avuto la forza politica per metterle in pratica, Era a favore della nascita di uno stato palestinese indipendente, ma aveva sempre riposto fiducia in quell’Arafat famoso per non rispettare gli impegni presi. Ci voleva Sharon per realizzare i suoi piani, garantendo però nello stesso tempo la sicurezza. I confini, dunque, ma anche un conseguente scambio di popolazioni, inevitabile per garantire la continuità dei due futuri territori separati. Gli ebrei da una parte e i palestinesi dall’altra. “L’approccio deve essere realistico”, sostiene Della Pergola, “Non bisogna avere paura delle parole. Scambio di territori, scambio di popolazioni, non sono progetti razzisti. Volendo restare in Medio oriente, ci sono precedenti storici fra Giordania e Arabia Saudita, fra Giordania e Iraq, fra Egitto e Sudan. Il mondo non ha gridato allo scandalo, semplicemente ne ha preso atto. Questa proposta poi non è altro che la realizzazione di quel concetto che fu alla base della risoluzione ONU del 1947 che divise la Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo. Le zone densamente popolate da palestinesi entreranno a far parte del futuro stato, mentre quei territori nei quali vivono oggi circa 240.000 ebrei entrerebbero nei confini di Israele. Se da parte palestinese ci fosse veramente la volontà di costituire uno stato invece di continuare a combattere Israele, l’accordo sarebbe già cosa fatta ".
Ecco gli argomenti che segneranno l’imminente campagna elettorale, confini e scambio di popolazioni. Vedremo da che parte si schiererà l’Europa, se favorirà l’accordo o continuerà ad applicare il solito doppio standard per non perdere l’abitudine di contribuire alla continuazione del conflitto. Nel nome della pace, naturalemente. |