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Angelo Pezzana
Israele/Analisi
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La lezione di Nathan Sharansky 27-10-05
Quando il libro di Natan Sharansky "In difesa della democrazia" uscì in America l’editore non sborsò neanche un dollaro per fargli pubblicità. Ci pensò George W.Bush, che si fece fotografare con il libro fra le mani in più di una occasione. "Questo libro riflette le mie idee", dichiarò al New York Times, immediatamente ripreso da stampa e TV, tanto che qualcuno gli chiese se la sua teoria dell’esportazione della democrazia fosse farina del sacco di Sharansky. Un giornalista gli chiese di brutto se per caso era addirittura lui il "ghost writer" che gli preparava i discorsi.



E’ uscita in questi giorni presso Sperling & Kupfer l’edizione italiana, un’ ottima occasione per conoscere il suo pensiero e leggere una delle storie più appassionanti del secolo appena trascorso: la lotta degli ebrei sovietici per la libertà.



Dire che Natan Sharansky ha trascorso nove anni in un gulag sovietico per le sue idee non è dire tutta la verità. Bisogna, per capire l’uomo, aggiungere che in URSS non avrebbe certo avuto una vita grama se avesse svolto ubbidientemente la sua professione di fisico. Ma, come il suo maestro Andrej Sacharov, a lui non bastava appartenere alla classe dirigente se il prezzo da pagare era la libertà. Sharansky infatti voleva vivere il suo essere ebreo senza doverlo nascondere, voleva studiare la lingua ebraica, quella che parlano i suoi fratelli in Israele, voleva vivere in un paese dove fossero rispettati i diritti umani, pretendeva cioè cose impossibili nell’URSS del comunismo realizzato. Per chi ragionava come lui, per chi aveva il coraggio morale e fisico di dire no, c’era la prigione, il gulag. Natan Sharansky passò nove anni dietro le sbarre, dal 1977 al 1986. Non era il solo. Si chiamavano prigionieri di Sion quegli ebrei russi coraggiosi che scendevano in piazza armati solo di striscioni con disegnata la stella di Davide e la scritta "lascia andare il mio popolo". Si chiamavano Refuseniks, volevano che il nuovo Faraone li lasciasse andare in Israele, visto che libertà e comunismo non potevano camminare insieme.



Con Ida Nudel, l’eroina che ha diviso con lui la guida della protesta, Sharansky ha fatto capire ad un occidente, di fatto disinteressato a quanto avveniva nei paesi comunisti, e in Europa sovente complice, che ribellarsi alla tirannia non era solo doveroso ma anche possibile. Se sul piano politico il merito della caduta dell’URSS e del comunismo europeo va attribuita a Reagan e a Giovanni Paolo II, un peso enorme nella sconfitta della tirannide l’hanno avuto quelle persone che invece di chinare la testa l’hanno alzata e reclamato con forza i loro diritti.



Sharansky fu scambiato con il comunista cileno Corvalan e potè raggiungere la terra dei suoi padri, finalmente libero. In Israele mantenne il suo impegno personale, anche di fronte a quella enorme immigrazione di più di un milione di ebrei russi che di lì a poco sarebbe riuscita a raggiungere lo Stato ebraico. Per difendere i loro interessi fondò un partito, fu eletto deputato alla Knesset, e divenne un politico israeliano a pieno titolo. Ma non dimenticò le sue origini, non dimenticò che la libertà va conquistata abbattendo la dittatura, non dialogandoci, non venendo a compromessi. Elaborò una sua teoria che, con il passare degli anni, lo portò sempre più vicino alla politica interventista di George W.Bush. Vivendo in Israele, Sharansky si era reso conto che con il terrorismo non si viene a patti, che i dittatori vanno sconfitti e non vagamente sgridati o blanditi come si è sempre usato in Europa e in Usa sotto la presidenza Clinton. Che avesse ragione lo dimostra la guerra di liberazione dell’Iraq. Buttato giù Saddam Hussein, l’effetto onda lunga sta dando i suoi frutti in tutta la regione. La Siria si è ritirata dal Libano e lo stesso Assad traballa sul suo scranno, sente che i nodi stanno venendo al pettine. L’Iran, in mano oggi ad un governo che non è eccessivo definire guerrafondaio, sa che non si trova davanti a un’America tiepida ma ad un governo deciso a non fare più sconti come avveniva in passato. L’Iraq poi, pur colpito da un feroce terrorismo, dimostra ogni giorno la sua volontà di arrivare ad un regime che cominci ad assomigliare ad una democrazia. Gli stessi venti che, più o meno fortemente, cominciano a soffiare negli altri stati della regione.



Chi non apprezza il falco Sharansky lo accusa di ritenere le soluzioni troppo semplici. Se tutto fosse così facile, come lui descrive la conquista della democrazia, la diplomazia sarebbe una scienza esatta e non un’arte. Niente di più falso. Sharansky non sottovalutà le difficoltà che le democrazie hanno nel combattere le dittature. Sharansky, come lo definisce Fiamma Nirenstein nella prefazione, è "un profeta, non gli interessa l’arte del possibile ma l’arte della giustizia. E i profeti non vengono mai a portare pace o, almeno, non nell’immediato".



"In difesa della democrazia" è la storia di un ebreo russo diventato israeliano, una vita segnata da una profonda lotta per la libertà, che racconta le vicissitudini di un uomo onesto che per le proprie idee si è persino dimesso dal governo Sharon perché non era d’accordo sull’abbandono di Gaza ai palestinesi. Percorre il libro anche una storia d’amore, quella con Avital, sua moglie, che gli è sempre stata accanto, nella Russia sovietica dell’oppressione e nella terrà della libertà, Israele.



Angelo Pezzana (da LIBERO del 27 ottobre 2005)

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