Facebook e censura, un binomio ormai indissolubile?
Commento di Guido Bedarida da ATLANTICO
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Vi ricordate solo quindici anni fa, quando Facebook non esisteva? Mancava spesso (persino nelle democrazie) una tribuna pubblica aperta, mancava nel grande mare di Internet, un luogo di incontro virtuale dal quale lanciare messaggi o gridare ingiustizie, dal quale manifestare scontento e frustrazione. Poi, lentamente, la tecnologia, il corso delle cose, lo sviluppo di una idea, hanno dato vita a Facebook: una piattaforma privata oggi largamente diffusa in tutto il mondo capace di dare voce e visibilità ai silenziosi, ai silenziati, a chi parla e straparla, a chi ha qualcosa da dire e a chi non l’ha, in due parole, a tutti o quasi; o almeno così pensavamo. Sì, perché ancora pochi anni fa Facebook era uno splendido luogo libero nel quale esprimere opinioni, coltivare amicizie, condividere di tutto senza timore di essere censurati, una agorà virtuale in cui, come su ogni media, si era responsabili di quello che si diceva ma non si veniva puniti con il peggiore dei castighi: la perdita della parola, la sospensione dall’uso della agorà per tempi variabili, l’eliminazione della propria storia e identità virtuale. Sul fatto che ci possano essere delle conseguenze a quello che si dice o si scrive, anche su Facebook, credo non possano esserci obiezioni; sul fatto che si possa essere censurati e poi persino puniti e cancellati a completa e insindacabile discrezione del supervisore addetto al governo del social network qualche perplessità la si può avere. Nel tempo, e ormai da tempo, Facebook si è popolato di persone che scrivono e che mettono on line migliaia di contenuti ogni ora, foto, articoli, pensieri; questo ha fatto sì che la piattaforma sia divenuta un luogo di diffusione di parole e idee ma anche un luogo sotto sorveglianza, e non una qualsiasi sorveglianza ma una sorveglianza che possiamo tranquillamente definire, nel migliore dei casi, stupida e in altri casi artatamente parziale e ingiusta. Certamente il lavoro di analisi dei contenuti inseriti dai singoli utenti è enorme, diverse le sensibilità di chi legge e di chi scrive ma la soluzione adottata al fine di armonizzare questo mondo, di regolamentarlo, è stata quella di affidarsi a intelligenze (stupide) artificiali programmate per operare su parametri del tutto arbitrari ma, ancor più grave, fumosi quindi in realtà sconosciuti. Come reputare infatti un sistema che censura opere d’arte tali da secoli (in genere nudi), che blocca foto storiche quali la notissima bambina vietnamita che corre terrorizzata dai bombardamenti al napalm, o l’infante ucraino mezzo morto di fame (per la condivisione della quale e’ stata recentemente bloccata Silvia Grocchi per 30 giorni)? Come considerare un sistema che blocca semplici parole che disturbano un grottesco politically correct, anche se fanno parte per esempio del titolo di un libro che appartiene alla letteratura universale, come “Ragazzo negro” di Richard Wright? Come considerare che si lascino poi pubblicare e condividere offese gravi a persone giuridiche (passibili addirittura di querela), incitamenti all’odio e alla violenza, chiaro e manifesto antisemitismo? Offese, incitamenti all’odio e alla violenza che, seppur ripetutamente segnalati, passano indenni dalla analisi della stupida intelligenza artificiale e dalla censura degli apprendisti questurini di Facebook, occupati invece ad eliminare capezzoli (ma non le terga, chissà perché), termini che disturbano il loro stupido politically correct, evidenze storiche delle quali non sanno nulla e che interpretano a modo loro, e opinioni invise alle loro menti dogmatiche. La censura è continua e non fa sconti di autorevolezza: ha riguardato e riguarda utenti comuni e fior di giornalisti che nelle loro pagine esprimono semplicemente le proprie legittime opinioni o rendono amici e frequentatori edotti di fatti che accadono nel mondo. Così, in realtà, oltre che la censura di tipo moralistico esiste precisa e incontestabile una censura politica, una pulizia e polizia del pensiero, e una violazione ignobile della libertà espressione di coloro che non piacciono ai censori di turno. Una censura dell’idea, del pensiero, dell’opinione. Se ne deduce che quello cui pare tendere il sistema Facebook, sempre meno luogo della esistenza virtuale dei molti silenziati da regimi più o meno dittatoriali o partitocratici, è la moralizzazione, la realizzazione dello stato etico virtuale. Una moralizzazione, una omologazione, una correzione forzosa del pensiero che ricorda molto da vicino i metodi dei campi di rieducazione dei Paesi comunisti. Come non considerare i parametri inintelligibili di censura come il silenziamento del pensiero altro, dello scomodo o più semplicemente del diverso? Il sistema di “moralizzazione” ha poi una sua perversione profonda perché parallelamente a quello automatico opera un secondo metodo di controllo, o meglio di censura: quello su segnalazione anonima da parte degli altri utenti. Un sistema perverso perché vigliacco nel metodo e vigliacco nel merito che lo stesso Facebook richiede e permette: quello dell’anonimato che così, per una specie di segreta conta a maggioranza, asseconda spesso quanto di peggiore ci possa essere: le ubbie ed i conati antiliberali; una Stasi da social network spesso lassista molto più con gli estremismi che con il resto delle idee. Ed è assurdo, perché quello che non hanno segnalato i vigliacchi o che non viene colpito dagli algoritmi, spesso e volentieri viene colpito in seconda battuta da parte degli individui preposti all’ignobile compito di sorveglianza, quegli armati di clava mediatica, quasi sempre evidentemente ignoranti di storia, di arte, di letteratura, di libertà, di liberalismo etc, cui è consentito di arrogarsi il diritto di giudicare e di espellere idee e persone senza una reale possibilità, per chi subisce le punizioni, almeno di difendersi dalle accuse. Questi “cottimisti” della censura, anch’essi a noi sconosciuti, sono nella migliore delle ipotesi degli ignoranti in buona fede oberati di lavoro, nella peggiore degli astuti elementi di indirizzamento del pensiero collettivo manipolatori e manipolabili da chi controlla gli accessi alla agorà virtuale che è Facebook. È infatti purtroppo noto che nella stragrande maggioranza dei casi l’utente incriminato che protesti, argomentando, la sua innocenza, non venga ascoltato e tantomeno degnato di chiarimento o risposta. Si dice, e ci si dice, che entrando in Facebook si firmi un’accettazione totale delle sue regole e dunque che sia legittimo quanto viene imposto; ma è veramente così limitato il campo delle possibilità degli utenti che in quanto tali hanno solo doveri e nessun diritto? O forse quello della accettazione delle regole è solo un argomento specioso poiché le regole indicate sono approssimative ed in realtà gli utenti sono alla merce’ dell’insindacabile giudizio dei responsabili del social network, che agiscono a loro piacimento secondo metriche che cambiano da censore a censore, di moda in moda politically correct, e che di fatto negano la fondamentale e costituzionalmente garantita libertà di espressione? Paradossalmente, con tale criterio delle regole l’utente di Facebook accetterebbe passivamente anche cose contrarie alle leggi e al semplice buonsenso, come in effetti accade, perché tali sono le discriminazioni vietate per legge ovunque, ma esercitate dai responsabili del social network senza che nessuno lo impedisca e possa impedirlo; certamente ci si muove su un terreno molto delicato, ma il limite tra quanto è possibile decidere in una proprietà privata e quello che è divenuto il luogo della voce virtuale pubblica implica o no dei doveri e il rispetto delle leggi o, quanto meno, la chiarezza e univocità delle regole e la loro corretta applicazione? Per come è attualmente gestito Facebook è diventato un vero e proprio regime che limita la libertà di espressione in modo restrittivo rispetto alla legge e che agisce senza controllo alcuno e senza possibilità di appello; un regime che, ricordiamolo bene, è organizzato e gestito da persone, non da entità astratte o impersonali; è un sistema così fatto e così organizzato con volontà, con scelta consapevole, con e per convenienza. Per quanto appaia paradossale oggi Facebook non è più il magnifico strumento di libertà degli inizi ma spesso, all’opposto, uno strumento delle dittature, uno strumento di controllo e indirizzo del pensiero, uno strumento dal quale dobbiamo difenderci perché esercita una limitazione arbitraria della libertà di espressione persino nelle democrazie in cui è nato e prospera. Credo quindi sia il momento di farci la domanda se a questa limitazione di libertà, se a questo crucifige di chi la pensa diversamente si debba porre in qualche modo fine e rimedio oppure no. È forse il momento di chiederci se possiamo ulteriormente tollerare che quella che è divenuta la tribuna principale, se non quasi l’unica, del dibattito virtuale pubblico debba e possa essere gestita nel modo in cui viene attualmente gestita o se sia anche giunto il momento di prevedere, trovare, creare, tribune alternative e simili in cui traslocare abbandonando definitivamente il rischio ormai concreto del “Grande Fratello” perfettamente capace di indirizzare il pensiero dei suoi milioni di utenti. E per concludere, è forse il momento di chiederci, anche a livelli al di sopra del nostro, magari anche in Parlamento: chi controlla il controllore? Chi ci difende da Facebook su Facebook, chi ci tutela dai suoi intenti moralizzatori, dalla sua rieducazione forzosa e dalla sua censura culturale?
Guido Bedarida