In Israele i partiti non hanno lunga vita. Chi vuole entrare in politica e gode di una certa popolarità in genere non dà la scalata ai vertici di uno già esistente, preferisce crearsene uno tutto per sè. Hanno avuto vita lunga conservatori e laburisti, circondati però da una grande mobilità, sia nel campo laico che in quello religioso. L'argomento del giorno, che ha sostituito l'uscita da Gaza e dalle altre quattro colonie della Cisgiordania, è cosa farà Ariel Sharon. Che la risposta non sia facile lo si desume dai titoli dei giornali, equamente divisi tra chi lo vuole sempre alla guida del Likud e chi lo dà già impegnato alla formazione di un nuovo partito. Che nel suo Likud non abbia prospettive facili lo dicono i sondaggi interni, che lo piazzano al di sotto di Bibi Netanyahu e di Uzi Landau, i maggiori oppositori al progetto di abbandono delle colonie. Uzi Landau è un duro dai toni estremisti, privo di qualunque volontà di compromesso. Per questo è diventato popolare nel partito. Ha sempre votato contro il disimpegno, nella Knesset ha usato toni durissimi contro il premier, ma sempre a viso aperto. Non ha fatto il politicante, come Netanyahu, che ha scelto l'attacco a Sharon solo alla vigilia dell'uscita da Gaza, dimettendosi dal governo e da ministro dell'economia con una tattica che ha disgustato la maggioranza dell'opinione pubblica. Ma dentro il Likud questo gesto, privo di qualsiasi senso di responsabilità politica, gli ha valso credito, piazzandolo in testa a Sharon nei sondaggi. Malgrado il successo ottenuto, sia in casa che nell'apprezzamento internazionale, adesso la strada della leadership è per Sharon tutta in salita. Ma anche quelli che non ne condividono le scelte e i metodi sono però conviti che ce la farà. L'uomo è troppo determinato per gettare la spugna. Non l'ha mai fatto in tutta la sua vita, si è sempre assunto tutte le responsabilità, anche quelle degli altri, sia da militare che da uomo di stato. Questo gli ha valso sempre la fiducia, anche dalla opposizione più responsabile. Non è per caso che i laburisti di Peres lo hanno sostenuto entrando nel suo governo. Dopo Gaza molti nodi verranno al pettine, e non si vede quale coalizione possa affrontarli diversa da qualla attuale, che gode, non dimentichiamolo, del consenso della maggioranza degli israeliani, come lo dimostrano i continui sondaggi. I problemi sul tavolo del prossimo governo, ormai tutti parlano di elezioni anticipate al prossimo novembre, sono essenzialmente tre:
1) a Gaza i palestinesi saranno giudicati in tutte le sedi internazionali per come sapranno gestire la loro autonomia e,diciamolo tranquillamente, per come sapranno dare prova di autogoverno. La posizione di Israele sarà delicata. Da un lato nessuno potrà più accusarla di occupazione, a Gaza non ci sarà più l'ombra di un israeliano. Dall'altro, se il terrorismo di Hamas continuerà - e nulla lascia sperare che andrà diversamente- Israele dovrà essere in grado di rispondere in un modo che non ha mai fatto prima, perchè sarà attaccata da uno Stato e non più da "miliziani" qualunque. Solo un governo forte e autorevole sarà in grado di rispondere. Sharon ha avuto la capacità politica di ribaltarne il rapporto. Per la prima volta, nella lunga storia israelo-palestinese, questi ultimi non possono più permettersi di giocare su due tavoli la doppia parte di popolo occupato e contemporaneamente quella di movimento terrorista che invece di aspirare ad uno Stato indipendente, lotta per farne fuori un altro. Aiutare Abu Mazen, come chiedono USA e Unione europea, a prevalere contro i gruppi fondamentalisti islamici è una sfida accettabile da Israele solo se a guidarla ci sarà un governo con le idee chiare e sufficientemente forte e stabile. C'è molta attesa per vedere come i palestinesi si comporteranno una volta che gli verrà consegnata Gaza. Sarà un esame d'ammissione al futuro Stato oppure la presa di possesso di un territorio dal quale organizzare in modo più efficiente il terrorismo contro Israele ?
2) Lo smantellamento delle colonie, anche se tutto si è svolto in modo ammirevole, ha lasciato un paese se non spaccato certamente diviso. Da un lato l'Israele della modernità, della capacita di analizzare il proprio futuro, di avere la volontà di fare grandi scelte per mantenere Stato ebraico e democrazia, imporranno a breve una analisi delle contraddizioni che il sionismo religioso ha introdotto nella vita quotidiana degli israeliani. Non è accettabile che la legge religiosa tenti di opporsi a quella dello Stato.
3) Proseguire la riforma dell'economia, per garantire a Israele l'ingresso a pieno titolo fra quei paesi che hanno applicato con successo le tesi Milton Friedman, creando posti di lavoro e ricchezza al posto dello Stato assistenzialista tipico delle economie di stato.
Sono questi gli scenari di fronte ai quali Sharon dovrà prendere una decisione. La scelta più probabile è che sceglierà di lottare nelle primarie del likud per avere la guida del partito, anche se ad oggi le probabilità di vittoria non ci sono. Se le primarie andranno male, Sharon fonderà un nuovo partito. Se nel Likud oggi sono in testa Netanyahu e Landau, non si può dire lo stesso fra gli elettori in tutto il paese, fra i quali Sharon è di gran lunga il primo ad essere indicato come leader.
Tutti i giochi sono aperti. Sharon farà poche conferenze stampa e concederà ancor meno interviste, come è sua abitudine. Non è un politico che investe il suo tempo con i media, come fa invece il suo rivale Netanyahu, che non muove un passo nè apre bocca senza prima aver consultato un sondaggio. Da buon militare e da politico pragmatico Sharon ha sempre fatto l'opposto. Sarà per questo che dopo una vita spesa a servire il suo paese, oggi molti, sia da destra che da sinistra, guardano ancora a lui con fiducia, pronti a votarlo di nuovo.