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La Stampa Rassegna Stampa
07.12.2018 Indonesia: anche in estremo oriente è di casa il jihadismo e la dittatura islamica
Cronaca di Carlo Pizzati

Testata: La Stampa
Data: 07 dicembre 2018
Pagina: 15
Autore: Carlo Pizzati
Titolo: «Indonesia, arriva la App che denuncia gli eretici: 'Vi facciamo licenziare'»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 07/12/2018, a pag. 15, con il titolo "Indonesia, arriva la App che denuncia gli eretici: 'Vi facciamo licenziare' ", la cronaca di Carlo Pizzati.

Al bando tutti i culti tranne le sei religioni ufficiali, controllati i dipendenti pubblici: se non vanno regolarmente in moschea ogni mattina presto, vengono  licenziati. Il più grande Paese islamico del mondo adotta sempre più una legislazione che discrimina i non musulmani ( e costringe questi ultimi all'ubbidienza pronta,cieca,assoluta)

Ecco l'articolo:

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Quando la tecnologia incontra la teocrazia sono guai per tutti. Lo dimostra quel che sta succedendo in Indonesia, dove il governo ha appena lanciato un’app «denuncia-eretici», che consente a chiunque di segnalare subito comportamenti e culti religiosi non in linea con le sei religioni ufficiali. E intanto, nella città di Palembang, si sta per costringere i funzionari pubblici a installare un’app nei loro telefonini che servirà, tramite Gps, a verificare se sono andati nella loro moschea per pregare ogni mattina all’alba. I dipendenti senza giustificazione valida potranno essere licenziati in tronco.
Incrociate quindi l’incubo di una società sorvegliata dalla tecnologia con una democrazia che va verso la teocrazia, esigendo devozione obbligatoria 24 ore al giorno, e avrete un quadro di quello che sta accadendo in Indonesia in questi mesi di preparazione alle presidenziali del 2019.

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Una manifestazione jihadista in Indonesia


Certo, sono più spesso episodi a livello locale, in quest’arcipelago di 17 mila isole dove il 90 % dei 260 milioni di abitanti è musulmano. Ma sono pezzi di un puzzle che dà un nuovo volto a quella che era considerata una cultura aperta al pluralismo e lo è sempre di meno.
L’application Smart Pakem («monitorare le fedi religiose») offre un elenco di religioni e organizzazioni religiose proibite, oltre a una lista delle fatwa del sempre più potente Consiglio indonesiano degli Ulema. «Se arrivano segnalazioni», dice fiducioso il vice direttore dell’intelligence della polizia di Giacarta, «possiamo intervenire subito. Prima bisognava scrivere una lettera. Troppo complicato. Adesso con questa app sapremo subito da dove arriva la denuncia».

Non la pensa così Yandra Budione, portavoce di una delle minoranze religiose considerate «fuorvianti», l’Ahmadiyyah: «Così non si fa altro che aumentare il sospetto e la sfiducia tra la gente». Il direttore della Commissione nazionale dei diritti umani, Amiruddin al-Rahab, le dà manforte: «Ci possono essere conseguenze pericolose che causeranno disgregazione sociale. È davvero problematico incoraggiare i vicini a denunciarsi gli uni con gli altri su questi temi».
L’ideologia di Stato indonesiana, la Pancasila, prevede solo sei fedi legali: Islam, Cattolicesimo, Protestantesimo, Confucianesimo, Buddismo e Induismo. La più temuta neo-setta è quella sincretica del Gafatar, già condannata per eresia, perché mira all’unione della fede islamica con quella cristiana e giudaica. Il loro leader, l’autoproclamato neo-messia Ahmad Musadeq è in prigione da dieci anni. Nel 2016, settemila fedeli sono stati fatti sgomberare con la forza dalla loro comunità nell’isola di Lombok, le case date alle fiamme dalla folla. Ora sono in «campi di rieducazione religiosa».

Oltre all’esacerbarsi dell’intolleranza per le altre religioni, c’è anche l’inasprirsi del fondamentalismo nei confronti dei praticanti, come dimostrato dall’App della preghiera di Palembang, capitale del Sud di Sumatra. Il portavoce del sindaco, Amiruddin Sandy la fa breve: «Se fai la tua preghiera ogni mattina, inshallah, andrà tutto liscio». Ma se quella mattina non hai voglia di alzarti e andare alla moschea, ne dovrai render conto ai superiori. E rischi il posto di lavoro.
Ci sono più di 800 mila moschee nell’arcipelago e sono così chiassose nella chiamata alla preghiera, l’adzan, che tre anni fa il vice-presidente Yusuf Kalla, per placare le proteste dei residenti, lanciò un appello a tutti i luoghi di culto chiedendo di abbassare il volume.
Ma quando, ad agosto, nell’isola di Sumatra la signora Meiliana, 44 enne di etnia cinese e di religione buddista, ha osato lamentarsi perché il volume dell’adzan non la lasciava dormire, i giudici, appellandosi alla troppo ampia legge anti-blasfemia, l’hanno condannata a 18 mesi di prigione per aver «alimentato sentimenti di conflitto religioso».

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lettere@lastampa.it

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