Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 17/11/2018, a pag.III, con il titolo "Il grande bardo inattuale" la recensione di Giulio Meotti al libro "The life of Saul Bellow: love and strife" di Zachary Leader
Giulio Meotti Saul Bellow mentre riceve il Premio Nobel
"Bloccato dalla neve, a mezzanotte, osservavo la tormenta che imbiancava le auto parcheggiate. Il vorticare dei fiocchi di neve sotto i lampioni mi ha fatto pensare a quanto sarebbe piacevole se fossimo tutti avvolti da una grande raffica bianca. O Signore, concedici una moratoria di una settimana sulle idiozie che ardono dappertutto e fa che la neve immacolata raffreddi queste menti surriscaldate e diluisca le tossine che avvelenano i nostri giudizi”. Saul Bellow (1915-2005) inveiva di frequente, specialmente con l’avanzare dell’età, contro le distrazioni della cultura moderna. Nel 1994 decise di scrivere questo articolo per il New York Times, per attaccare quello che aveva intuito sarebbe diventato una piaga della vita americana. Il politicamente corretto. Bellow era stato appena demonizzato sui giornali e altrove per un’osservazione sul terzomondismo letterario in ascesa, secondo cui i papua non hanno avuto alcun Proust e gli zulù non hanno ancora prodotto un Tolstoj. “La Casa Bianca dovrebbe allora lanciare una ‘fatwa’ e introdurre una taglia sulla mia testa per blasfemia contro l’alta cultura americana? I miei critici, molti dei quali non sono neanche in grado di indicare su una mappa dove si trovi Papua Nuova Guinea, vogliono condannarmi per vilipendio del multiculturalismo e per diffamazione del Terzo mondo. Io, poi, sono un vecchio maschio bianco – un ebreo – da prendere a pedate. Ideale per i loro scopi”.
Bellow aveva capito che una “nuova ortodossia” e una “nuova rabbia” avrebbero minacciato l’indipendenza delle anime. “La rabbia è diventata prestigiosa. La rabbia è l’esatto opposto della prudenza borghese, è un lusso. La rabbia è raffinata, è una passione patrizia”.
E’ appena uscito il secondo volume di Zachary Leader, il biografo del grande scrittore americano premio Nobel della Letteratura: “The life of Saul Bellow: love and strife” il titolo. Da questa biografia di Leader, già studioso di Kingsley Amis, emergono tutto l’humor sarcastico e il catastrofismo aspro di Bellow, placati però da una ironia indulgente che lo portava a esercitarsi in un quieto pessimismo, contro quella che il “suo” Artur Sammler aveva definito “questa superficialità presente”. “Poche parole di Bellow hanno fatto di più di quelle sugli zulù per alienargli le opinioni liberal e accademiche o per far bandire la sua letteratura dai programmi universitari”, scrive Leader. In un articolo per il Sole 24 Ore, qualche anno fa, Alessandro Piperno ha notato che Bellow era “troppo antipatico, troppo ebreo, troppo xenofobo, troppo misogino, troppo liberista, troppo conservatore, troppo erudito, troppo elitario…”. E questo ne fece, concludeva Piperno, “la vittima illustre dell’ipocrisia liberal che infesta i nostri tempi”.
E’ di questo che parla, la grande biografia di Leader. Dello scrittore americano più “inattuale”, nel senso di lontano da ogni conformismo ideologico. Uno scrittore avverso a just line up, come diceva, a serrare i ranghi conformisti.
Nel 1965 Bellow accetta di partecipare al Festival of Arts organizzato dalla Casa Bianca, nonostante disapprovasse l’intervento in Vietnam. Amici e scrittori suoi colleghi, da Bernard Malamud a Philip Roth, si attendevano da lui il gran rifiuto, come aveva fatto Robert Lowell. E quando scoprirono che aveva accettato di varcare la soglia della Casa Bianca andarono su tutte le furie, che Bellow stemperò così: “Non sarei mai andato, mi ha obbligato la mia ostinazione a contraddirmi, la necessità di essere in disaccordo con tutti”.
Nel 1981 spiegherà così il gesto: “Sebbene mi opponessi alla guerra in Vietnam, la gente si organizzò in campi e io mi rifiuti di entrare nei nuovi gruppi. Ero stanco che mi chiedessero di firmare questo e quell’altro appello contro Lindon Johnson”. E poi “Johnson non è Hitler”, dirà. “E poi io non sono pronto alla disobbedienza civile. Voi sì, smetterete di pagare le tasse?”
.Bellow detestava il groupthink, il pensiero di gruppo, di branco. Così firmò la petizione a favore dei dissidenti sovietici imprigionati, Andrei Sinyavski e Yuli Daniel, ma si rifiutò di contribuire al libro “Authors take side on Vietnam”. Dopo aver vinto il Nobel, disse: ‘”Potrei passare il resto della mia vita a lavorare in comitati, difendendo tutte le cose giuste e denunciando tutte quelle cattive. Ma devo ancora sentire di Brezhnev intimidito da raccolte di firme”.
Bellow odiava le ortodossie, arrivando a scrivere nel 1992: “E’ evidente agli osservatori esperti che le persone ben intenzionate preferiscono enfaticamente le cose ‘buone’. Il loro desiderio è quello di essere identificato con il ‘meglio’. Più sono ricche e ‘me - glio istruite’, più si sforzano di identificarsi con le opinioni più largamente accettate e rispettate. Quindi sono naturalmente per la giustizia, per la cura e la compassione, per gli abusati e gli oppressi, contro il razzismo, il sessismo, l’omofobia, contro la discriminazione, contro l’imperialismo, il colonialismo, lo sfruttamento, contro il fumo, contro le molestie – per tutte le cose buone. Vedendo queste persone ricoperte virtualmente di credenziali, medaglie, distintivi, mi vengono in mente gli strati di medaglie indossate dai generali sovietici nelle fotografie ufficiali. Le persone che hanno il meglio di tutto desiderano anche le migliori opinioni. Il giusto tipo di pensiero giusto, inoltre, rende più fluidi i rapporti sociali. Il tipo sbagliato ti espone ad accuse di insensibilità, misoginia e, forse peggiore di tutte, il razzismo. Mentre cresce il fascino dell’accettazione o del conformismo, i pericoli dell’indipendenza si approfondiscono.
Differire è pericoloso”. Questa è forse la più clamorosa critica e ritratto delle chattering classes, le classi ciarliere del ceto culturale. Secondo Adam Kirsch, uno dei massimi critici letterari americani, questa nuova biografia dimostra che Bellow era angosciato da quella che Kirsch definisce “il crollo della civiltà”. Bellow era nato in una famiglia di immigrati che passò dalla Russia al Quebec, dove era nato, e poi aveva attraversato il confine americano. Anche se gli anni Sessanta furono un periodo di avventura sessuale per Bellow, nel suo lavoro fu disgustato da quello che percepì come il crollo della civiltà.
“Il pianeta di Mr. Sammler” ha per eroe un sopravvissuto dell’Olocausto che giudica la frivolezza e la brutalità dell’America degli anni Sessanta. “Due eventi pubblici negli anni Sessanta furono particolarmente determinanti nella vita di Bellow: la Guerra dei sei giorni arabo-israeliana del 1967, e un discorso che lo scrittore fece un anno dopo alla San Francisco State University”, scrive Leader. Bellow voleva andare in Israele a raccontare la guerra, come fa Sammler. Fu colpito dalla stranezza di osservare i cadaveri “neri e puzzolenti nel sole del deserto” prima di tornare al suo lussuoso hotel.
“Dalla comoda veranda del King David Hotel di Gerusalemme”, riferisce il 12 giugno, “gli ospiti hanno assistito ai combattimenti violenti nella Città Vecchia”. Nei suoi dispacci, Bellow denuncia “la colpevolezza delle grandi potenze nel permettere a Nasser, Hussein e ai siriani di armarsi e minacciare di condurre gli israeliani in mare, per annegarli come topi, per annientare tutti”.
Si confessa: “Non sono mai stato sionista, non ho mai avuto forti sentimenti sull’argomento, ma qualcosa in quell’occasione particolare – il fatto che per la seconda volta in un quarto di secolo gli ebrei avevano una pistola premuta alla testa – mi ha portato a chiedere a Newsday, un giornale di Long Island, di mandarmi come corrispondente”. Arrivare in Israele non era stato facile. Bellow passò da Roma, dove gli fu detto che il suo volo per Tel Aviv sarebbe stato dirottato via Atene. Visitando Israele per diversi mesi ancora nel 1975, Bellow mantenne un resoconto delle sue esperienze e impressioni. “Israele è sia uno stato di guarnigione sia una società colta, sia spartana sia ateniese. Queste persone sono attivamente coinvolte individualmente nella storia universale. Non vedo come possano sopportarlo”.
Attaccò l’innocenza americana davanti alle forze del male. Siamo, noi americani, “leggermente cloroformati” per via della nostra ingenua buona volontà e rifiutiamo di vedere che il mondo è coinvolto in una lotta fino alla morte. La Guerra dei sei giorni cambia per sempre la visione che Bellow ha non soltanto di Israele, ma del mondo forse. In una lettera di protesta inviata al Monde, datata 15 ottobre 1973, scritta nove giorni dopo lo scoppio della guerra dello Yom Kippur, Bellow scriveva: “Perché la Francia non dovrebbe tener conto del fatto che Israele è democratico, mentre le nazioni arabe sono oppressive, xenofobe, feudali? Un governo francese ha un debito di lealtà con la libertà e l’uguaglianza, ciò che di meglio c’è della civiltà francese? O dovremmo cominciare a pensare che quella civiltà non è che un altro prodotto di esportazione come il vino e il formaggio, i profumi e gli armamenti?”.
Per assicurarsi che la lettera arrivasse al Monde, Bellow ne consegnò una copia al drammaturgo Eugene lonesco e una seconda al romanziere Manes Sperber.
Il suo personaggio forse più famoso, Sammler, si dice sconvolto dalla “follia sessuale” degli anni Sessanta. “Che cosa straordinaria!”, riflette Sammler dopo essere sfuggito agli studenti arrabbiati. “Tutto ciò confondeva la militanza sessual-escrementizia, esplosività, prepotenza, digrignamento di denti, l’urlo delle scimmie di Berberia”.
James Atlas, nella sua biografia di Bellow del 2000, definisce il “Pianeta del signor Sammler” come “un’esplosione di razzismo, misoginia e intolleranza puritana”, annunciando la trasformazione di Bellow in un “reazionario in piena regola”. L’ex radical era diventato un mostro di destra.
Come spiega Leader nella sua biografia, il racconto di una conferenza di Sammler interrotta da un manifestante era basato su un fatto davvero avvenuto a Bellow alla San Francisco State University nel 1968, quando un agitatore lo offese pesantemente durante un’apparizione pubblica. “Non vai all’università per distruggere la cultura”, disse Bellow. “Per questo ti serve un partito nazista”. Fulminanti alcuni suoi giudizi: “Leggendo Sartre, dissi a me stesso, nel mio stile tipico di Chicago, questo qui mi sembra proprio un imbroglione”.
O come quando, in piena temperie sessantottina, scrisse al Chicago SunTimes: “Come Maria Antonietta che si dilettava con le pecore, come Gauguin che si volge verso i Mari del Sud, come Rimbaud che si è fatto selvaggio, così i bambocci di Haight Ashbury (distretto di San Francisco, ndr) chiedono alla civiltà che li ha prodotti di essere liberi e felici come gli uomini primitivi… I movimenti giovanili non sono invariabilmente una buona cosa. La Hitlerjugend non lo era di certo. Come non lo erano i Lupi di Benito Mussolini. Non lo era il Komsomol di Stalin. E non ci hanno riempito di fiducia e di speranza le bande maoiste”.
Bellow era diventato ancora più pessimista dopo aver pubblicato “Il dicembre del professor Corde”, che fa un’esplorazione forense della corruzione e della violenza di Chicago, basata sulla ricerca di Bellow sui progetti abitativi e le aule di tribunale.
Chicago era stata la casa di Bellow fin dall’infanzia, ma negli anni Settanta era diventata una città pericolosa e disfunzionale, specialmente nel South Side, vicino all’università. “Le catastrofi non hanno bisogno di alcun oracolo. Sono presenti, esistono, stanno sotto i nostri occhi: nel corso della mia vita, ad esempio, io ho visto le grandi città americane corrodersi, disfarsi, imputridire, crollare. La cosa strana è che ci sia oggi un misterioso miscuglio di disastri, barbarie, e alta sensibilità intellettuale”. Invitato alla Purdue University nel 1969, Bellow tacciò i manifestanti di essere dei “distruttori”, e poi scandì quella frase: “Forse la civiltà sta morendo, ma esiste ancora e nel frattempo abbiamo una scelta: possiamo lanciargli altri colpi o provare a riscattarla”. Forse per questo il grande scrittore era arrivato ad ammirare tanto lo Stato ebraico. “Nella loro preoccupazione per la decadenza della civiltà e nel loro orgoglio, gli israeliani hanno qualcosa da insegnare al mondo”.
Per inviare al Foglio la propria opinione, telefonare: 06/5890901, oppure cliccare sulla e-mail sottostante