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Angelo Pezzana
Israele/Analisi
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L'Autorità palestinese dopo l'attentato di Tel Aviv 27-02-2005
Il kamikaze che si è fatto esplodere davanti a una discoteca a Tel Aviv non ha soltanto ucciso e ferito degli innnocenti. Il suo gesto è stato un messaggio chiaro ad Abu Mazen e a quanti avevano cercato, da entrambe le parti, di ricucire un possibile percorso di pace dopo la morte di Arafat che ne era, non dimentichiamolo, il maggiore ostacolo. Non a caso la strage è stata rivendicata anche dalle Brigate dei martiri di Al Aqsa, il braccio armato del Fatah, il movimento che rispondeva direttamente al rais defunto. Abu Mazen ha ora di fronte due strade. Continuare la politica che ha mantenuto sinora, quella dell'integrazione dei terroristi in quelle che dovrebbero diventare le future forze di sicurezza palestinesi, malgrado sia ormai evidente che nessuna tregua potrà mai resistere stante il rifiuto di qualunque compromesso opposto dai gruppi che si richiamano alla guerra santa contro Israele. Oppure usare la maniera forte, rinunciare alle esecuzioni sommarie di qualche terrorista, catturane i capi e processarli in regolari processi, pubblicamente, con tutte le garanzie che il diritto assicura anche al peggior delinquente. In modo che le loro condanne siano una lezione ed un avvertimento che l'Autorità palestinese, sotto la sua guida, non tollererà più un vero e proprio stato terrorista entro lo stato legale. Se questa seconda ipotesi non riuscirà a realizzarsi, i terroristi l'avranno avuta vinta. A loro non interessa che il governo Sharon lasci Gaza, non interessa che 500 detenuti nelle carceri israeliane siano stati rilasciati, non gli interessa che cinque importanti città nella Cisgiordania possano ritornare tra pochi giorni sotto la sovranità dell'Autorità palestinese. Anzi, più gli accordi fra Sharon e Abu Mazen si fanno stretti e positivi, più sembra aumentare la loro volontà di far saltare tutto in aria, proprio come avviene quando un loro criminale semina morte fra giovani che in una sera di festa fanno la coda per entrare in una discoteca a Tel Aviv. Non sarà per Abu Mazen un compito facile. Non l'aiuta certo la presenta nel suo governo di forze che ancora rappresentano il passato regime. Nomi altisonanti, come quello di Abu Ala, che - stando alle rivelazioni di Guido Olimpio sul Corriere della Sera di ieri- sembra essere coinvolto insieme al "tunisino" Farouk Khaddumi nello scandalo dei conti segreti nelle banche europee, dove quel gran ladrone di Arafat amministrava centinaia di milioni di dollari, sottratti al popolo palestinese e che servivano anche per finanziare il terrorismo. Se le cose stanno così - e lo si era capito già benissimo durante i giorni nei quali Arafat fu tenuto artificialmente in vita nell'ospedale parigino per permettere agli eredi la spartizione del bottino - Abu Mazen dovrà far pulizia nel suo stesso governo. Ce la farà ? Certo deve sapere che le dichiarazioni di circostanza nelle quali per l'ennesima volta viene condannato l'attentato non sono più sufficienti. E poco importa se nel terrorismo palestinese le influenze siriane e iraniane sono sempre più evidenti, anche questa non è una novità. Sul versante israeliano il governo Sharon è più che determinato a mantenere gli accordi stabiliti, dando una quotidiana dimostrazione che anche un'opposizione durissima può essere controllata nella salvaguardia e nel rispetto delle libertà democratiche. Le condizioni nelle quali vive la società politica e civile palestinese non consente di dire altrettanto. Eppure è questa la strada che Abu Mazen deve percorrere. Oggi, fra i palestinesi, il nome di Arafat, in luogo di diventare un'icona venerata, è scomparso persino nelle chiacchierate al caffè. Come tutti i dittatori, che non lasciano il potere per propria scelta ma ne vengono cacciati solo in caso di morte o con una guerra di liberazione - Saddam Hussein insegna-

la sua è stata un'eredità di corruzione e miseria. Che più nessuno lo ricordi è un segnale che Abu Mazen deve cogliere. Ma lo deve fare subito. E con tutta la forza necessaria.

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