Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 16/11/2018, a pag.2 con il titolo "La città senza ebrei", il commento di Micol Flammini.
Micol Flammini
All’inizio il cancelliere austriaco non poteva dirsi un antisemita. Era appena finita la Prima guerra mondiale, l’Austria non era più un impero, era piccola, povera, non contava più nulla. Il cancelliere si rese conto che la popolazione covava dei forti sentimenti di odio contro la popolazione ebraica di Vienna. Girava voce che se gli austriaci si erano improvvisamente ritrovati poveri era colpa degli ebrei, se erano disoccupati, era colpa degli ebrei, se erano stati umiliati con i trattati di pace, era colpa degli ebrei. Sarebbe bastato cacciarli dalla capitale e, almeno per un po’, la popolazione si sarebbe tranquillizzata. Avrebbe pensato all’odio e si sarebbe sentita appagata.
E’ questa la trama de “La città senza ebrei” – Die Stadt ohne Juden – un film del 1924. La pellicola, ritrovata nel 2015 in un mercatino delle pulci parigino e restaurata l’anno successivo, è tratta da un libro di Hugo Bettauer, un giornalista ebreo che racconta la storia della città alla fine della guerra. Vienna è una città disperata e i politici sono alla ricerca di un capro espiatorio. “Il popolo – annuncia il cancelliere – richiede l’espulsione di tutti gli ebrei” e i duecentomila ebrei della capitale austriaca se ne andarono, al tramonto. Oggi il film verrà proiettato a Londra, al Barbican Center, con le musiche composte da Olga Neuwirth, musicista ebrea austriaca, che intervistata dal Guardian dice: “L’antisemitismo è parte del sangue austriaco, salta una generazione e poi ritorna”. L’artista racconta che quando il film venne proiettato per la prima volta nel 1924, alcuni gruppi di estrema destra, che ancora non potevano dirsi nazisti, protestarono: “E se è accaduto una volta può accadere di nuovo”, dice la Neuwirth citando Primo Levi. Nella lunga intervista pubblicata sul Guardian, la musicista spiega che mentre stava lavorando alla partitura non poteva fare altro che provare rabbia, “a un certo punto la musica rifletteva soltanto la mia rabbia personale”, che le scene del film che rappresentavano treni carichi di ebrei diretti verso altre capitali europee o verso la Palestina, erano la chiara prefigurazione di ciò che sarebbe accaduto venti anni dopo. Il regista non poteva saperlo ma quello che stava filmando era una premonizione. Che “La città senza ebrei” conosca una rinascita nel 2018 è significativo, ha un valore ancora più importante in un’epoca in cui crescono il razzismo, il nazionalismo, il populismo, l’antisemitismo: “Ci sono dei parallelismi chiari con i nostri giorni – dice Neuwirth – Il linguaggio tossico sta generando odio oggi come allora”. La proiezione del film a Londra è parte della stagione Barbican’s Art of Change, il cui scopo è indagare come gli artisti possono rappresentare e cambiare il panorama politico. “Donald Trump e gli altri demagoghi di destra in tutta Europa mostrano come il linguaggio e la retorica possono essere usati per scatenare l’odio, questo film mostra esattamente questo: come l’odio può essere creato, fabbricato, stimolato per scopi politici”. L’odio come collante, come strumento per unificare una società frammentata, povera, smarrita di fronte ai fenomeni della storia. Tutto questo è già avvenuto e sta accadendo anche oggi. Un rapporto dell’Fbi, pubblicato dal Washington Post all’inizio di questa settimana, mostra come nel 2017 i crimini d’odio negli Stati Uniti siano aumentati del 17 per cento. La maggior parte, il 37 per cento, sono crimini contro le comunità ebraiche. Il dato fa riflettere, fa allarmare, è il risultato della debolezza di una leadership politica che usa l’odio, perché è la base più semplice sulla quale costruire un governo. “Spero che il film possa aiutare a capire e a pensare a che punto siamo e cosa sta andando storto”, spiega la Neuwirth. Il romanzo e il film terminano in modo diverso. Bettauer alla fine del libro racconta che l’Austria chiede agli ebrei di tornare: “Vienna aveva capito che così si stava rassegnando ad avere una società mediocre, aveva bisogno degli ebrei”, spiega la musicista. Una delle caratteristiche che resero l’Austria famosa e grande fu proprio la componente ebraica, Arnold Schoenberg, Arthur Schnitzler, Stefan Zweig, Sigmund Freud. Il film invece termina con un consigliere antisemita che con stupore si sveglia ubriaco in una taverna viennese ed esclama: “Grazie a Dio, ho fatto soltanto uno stupido sogno, siamo esseri umani, non abbiamo bisogno dell’odio, vogliamo vivere, vogliamo vivere tutti insieme e in pace”. Il finale però non piacque allora a Bettauer, che pochi anni dopo morì ucciso dai nazisti mentre il regista del film si arruolò nel partito nel 1940, e non piace oggi alla Neuwirth la quale ha commentato: “E’ vero, dovremmo volerci tutti bene, ma il punto del romanzo era dimostrare che odiare è talmente facile e vivere in pace è così difficile, che tra le due opzioni la prima viene più naturale e per questo siamo a rischio”. L’odio è una scappatoia, la via breve che i governi percorrono per restare in piedi e come ricorda il film e come suggerisce la Neuwirth è il modo più semplice di governare.
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