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Giorgia Greco
Libri & Recensioni
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'Il tatuatore di Auschwitz ', di Heather Morris

Il tatuatore di Auschwitz
Heather Morris
Traduzione di Stefano Beretta
Garzanti euro 17,90

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Copertina e autrice

Per il suo esordio narrativo Heather Morris, sceneggiatrice neozelandese, si affida alla storia vera di Lale Sokolov, nato in Slovacchia nel 1916 come Ludwig Eisenberg da genitori ebrei e deportato ad Auschwitz nell’aprile del 1942. Come molti sopravvissuti ai campi di sterminio per più di 50 anni Lale ha conservato nel cuore il segreto di essere stato il tatuatore ufficiale e aver contribuito a quel terribile processo di registrazione con cui le persone appena giunte nel campo di sterminio perdevano nome e identità. Con il numero 32407 “costruii le baracche, ma presto mi ammalai di tifo. Ero accudito da Pepan, l’uomo che mi aveva fatto il tatuaggio e che mi insegnò il mestiere e come tenere sempre la testa bassa e la bocca chiusa” racconta Lale a Heather Morris nei tre anni di lavoro occorsi all’autrice per guadagnarsi la sua fiducia e scrivere la storia.

Il ruolo di tatuatore e la sua abilità con le lingue straniere gli consentono di accedere a razioni di cibo extra e a una maggior libertà di movimento che impiega per aiutare i compagni meno fortunati di lui, intrattenendo scambi di generi alimentari e medicine con i lavoratori esterni al campo. E’ in questo inferno che Lale incontra Gita Furman, una giovane donna che lui stesso è costretto a marchiare con il numero 34902. In quei pochi istanti in cui gli sguardi si incrociano sboccia con forza dirompente un sentimento che li sosterrà nei momenti più duri fornendo a ciascuno la determinazione per resistere agli orrori del campo di sterminio. Attraverso gli occhi di Lale conosciamo le atrocità degli aguzzini, la disperazione dei deportati, la perdita della dignità ma anche il coraggio di chi come Lale e Gita è consapevole che “scegliere di vivere è un atto di sfida, una forma di eroismo”. Entrambi sopravvivono ai tre lunghi anni trascorsi ad Auschwitz e Birkenau ma al momento della liberazione, quando molti perdono la vita nelle marce della morte, vengono divisi dal destino. Giunto dopo molte peripezie a Bratislava, uno dei maggiori centri di smistamento dei sopravvissuti, Lale ormai disperando di riuscire a ritrovare la sua amata si imbatte casualmente in lei: forti di quella fiducia nel futuro che non li ha mai abbandonati si sposano nell’ottobre del 1945. Dalle note dell’autrice e dalla postfazione del figlio Gary - che fino all’età adulta non ha conosciuto il dramma vissuto dai genitori - apprendiamo che Lale Sokolov (il cognome russo che assume dopo la guerra è quello del marito della sorella, unica sopravvissuta della famiglia) si stabilisce con Gita a Bratislava e inizia a importare tessuti pregiati e a contribuire con l’invio di denaro alla nascita dello Stato d’Israele. Arrestato il 20 aprile 1948 con l’accusa di esportare gioielli e altri oggetti di valore dalla Cecoslovacchia, è condannato a due anni da scontare nella prigione di Ilava, famosa per essere un luogo di detenzione per prigionieri politici e prigionieri tedeschi dopo la guerra. Grazie ai suoi contatti nel governo Gita riesce a corrompere dei funzionari e con l’aiuto di persone compiacenti fuggono prima a Vienna poi a Parigi e infine a Sidney dove approdano il 29 luglio 1949.

Dopo essere rimasto in silenzio per anni alla morte di Gita, avvenuta nel 2003, Lale decide che è arrivato il momento di raccontare la sua storia non solo per non essere etichettato come collaborazionista dei nazisti ma anche perché desidera che venga documentata in modo da “non ripetersi più”. L’incontro fortunato con Heather Morris è l’occasione per far fluire i ricordi “incredibilmente nitidi e precisi” della vita di due persone private della loro libertà, del nome, dell’identità che sono riusciti con la forza del sentimento che li univa a guardare al futuro con fiducia nella certezza che “Se ti svegli la mattina è una bella giornata”.

“Il tatuatore di Auschwitz” , che diventerà un film nel gennaio 2020 in occasione del settantacinquesimo anniversario della liberazione del campo di concentramento, ha il pregio di essere una storia vera ma è un libro che non coinvolge emotivamente, da un lato per lo stile narrativo piuttosto mediocre e dall’altro perché l’autrice non riesce a calarsi con efficacia ed empatia negli stati d’animo dei personaggi. Il risultato è un racconto che non emoziona, con descrizioni frettolose, personaggi appena abbozzati e situazioni a tratti irreali. Il ruolo del “testimone secondario” - richiamato da Simon Levis Sullam nell’antologia “1938. Storia, racconto, memoria” (Giuntina) – ha assunto negli ultimi anni, con la scomparsa degli ultimi sopravvissuti, enorme rilevanza per la trasmissione della memoria alle nuove generazioni. Pur con una storia vera e narrativamente vincente Heather Morris non riesce a toccare il cuore del lettore e non assolve come avrebbe potuto al compito imprescindibile di testimone secondario.

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Giorgia Greco


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