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Angelo Pezzana
Israele/Analisi
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La fine dell'era Arafat porta la democrazia 07-01-05
L'aspetto più significativo del voto di domenica nei territori dell'Autonomia palestinese è il fatto che si vota. Dopo quarant'anni di fumisterie mediatiche che ci hanno imbonito i propagandisti della democrazia stile Arafat, questa è in realtà la prima volta che ai palestinesi è dato esprimersi per scegliere chi dovrà governarli. C'è stata una campagna elettorale e non è vero, come non hanno mancato di farci credere i commentatori che ancora soffrono della scomparsa di Arafat, che il risultato è scontato. Certo, la candidatura di Abu Mazen è quella che ha più probabilità di uscire vincente, anche perchè esprime la scelta del Fatah che è la maggiore organizzazione politica palestinese, ma i giochi sono ancora tutti aperti. Così come contano le percentuali di voto che i candidati raccoglieranno. Finiti i tempi del dominio assoluto di Arafat, queste elezioni segnano l'inizio di una prassi politica dove la scheda elettorale sostituisce il mitra. Una novità assoluta, anche se con Arafat vivo non veniva nemmeno notata dai nostri esperti, tutti intenti ad osservare quanto fossero cattivi gli israeliani con la loro mania di difendersi dal terrorismo. Andavano a fare inchieste in Israele e guardando un check-point lo vedevano solo come una forma di oppressione della mobilità dei palestinesi, costretti a fare lunghe code. Che il check-point servisse ad impedire l'ingresso ai terroristi suicidi, non gli passava neppure per l'anticamera del cervello. L'avessero scritto avrebbero reso un servizio alla verità dei fatti, ma questo, per chi aveva già stabilito cosa andava scritto, era impensabile. Israele è sempre stata interessata ad un cambio in senso democratico della dirigenza palestinese. Lo prova il comportamento di totale collaborazione che il governo Sharon ha messo in pratica per favorire queste elezioni. Che Israele vede con favore qualunque sia il risultato. Se il tuo nemico fa campagna elettorale è buon segno. Tacciono le armi, gli attentati sono quasi scomparsi e non è detto che dalle urne non esca una leadership in grado di traghettare la violenza come prassi politica verso un confronto di tipo parlamentare. Con un parlamento vero, eletto dai palestinesi, non una presa in giro come era quello di Arafat, quello per intenderci che i nostri giornali ci ammannivano quando volevano farci credere che Arafat era il "capo democraticamente eletto". Da queste elezioni Israele se ne sta fuori, anche se non può non manifestare un preoccupato stupore per la piega che hanno preso le affermazioni di Abu Mazen in campagna elettorale. Aver chiamato lo Stato ebraico "entità sionista", è stato un brusco ritorno ad un linguaggio che nessuno osservatore si sarebbe aspettato da Abu Mazen. Chiamare Israele con quei termini significa negarne il diritto all'esistenza. E' così che si esprimono Bin Laden, Iran ed il fondamentalismo islamico in genere. C'è da augurarsi che Abu Mazen, il cui linguaggio è in genere in linea con le eleganti grisaglie che indossa, l'abbia fatto per mera tattica politica, nella speranza di catturare il voto di Hamas e degli estremisti che queste elezioni non le hanno mai digerite del tutto. Se sarà eletto, la prova verrà dai fatti.In questi giorni di attesa vogliamo ricordarlo come l'uomo che si era rivoltato contro Arafat e che per questo era stato allontanato. L'Abu Mazen della Road Map, lo statista che ha avuto il coraggio di dire che l'Intifada è stato il più grande errore che i palestinesi avessero commesso. Se gli eccessi verbali finiranno con la campagna elettorale allora il futuro dei quella regione vedrà per davvero due popoli e due stati. Sharon sta mantenedo tutte le promesse fatte. Vedremo se lo stesso si potrà dire per Abu Mazen. O chi per lui, se dalle urne elettorali uscirà una sorpresa.

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