Un eroe a sua insaputa
Bianca Pilat
Tyche euro 15
Un accurato lavoro di ricerca storica, un’analisi approfondita dei documenti, una verifica puntuale di ogni testimonianza uniti all’orgoglio per un padre, carabiniere dal 1932, impegnato durante la Seconda Guerra Mondiale nella difesa dei perseguitati dal regime nazifascista, hanno dato vita a un’opera di indiscutibile valore storico e umano. Bianca Pilat, artista e fotografa, è la figlia di Bruno Pilat e nel suo lavoro “Un eroe a sua insaputa” (edizioni Tyche) con una ricerca metodica e appassionata indaga sulla vita del padre e sul ruolo che ha avuto nel salvataggio degli ebrei di Aprica riportando alla memoria le vicende di tante persone che si sono intrecciate attorno alla caserma di Aprica negli anni che vanno dal 1942 al 1945. Giovane vicebrigadiere dal giugno 1937, Bruno Pilat partecipa all’invasione della Grecia, nel 1941 è assegnato a Como per poi ottenere il comando della stazione di Aprica con il grado di brigadiere. Nel frattempo si sposa con Rosi che rimarrà sempre al suo fianco anche nei momenti più duri e pericolosi del suo incarico. “Tuo padre ha salvato 218 ebrei e 8 dalle SS” con queste parole la mamma di Bianca si rivolgeva alla figlia ogni qualvolta alla televisione mandavano in onda un programma di guerra o parlavano di ebrei.
Frammenti di ricordi del periodo di guerra si intrecciano con l’unica testimonianza tangibile di una grande pentola di alluminio “dono degli ebrei di Aprica”. L’occasione per narrare la storia del padre si presenta all’autrice dopo la lettura di un articolo del Corriere della sera del 2001 riguardante la fuga degli ebrei di Aprica e dopo una telefonata ricevuta nel 2009 dal dottor Facchini che la informa del coinvolgimento di Bruno Pilat nei fatti di Aprica chiedendole altresì notizie di due sacerdoti, don Giuseppe Carozzi e don Cirillo Vitaliani, per i quali vorrebbe ottenere un riconoscimento dallo Stato di Israele e dal Vaticano. Poiché con la morte del padre quella storia rischia di cadere nell’oblio, Bianca Pilat si mette subito alla ricerca dei documenti conservati nell’abitazione di Bandita che riguardano il passato militare del padre per cogliere tracce e indizi nascosti che le avrebbero fornito il quadro completo di una vicenda dai contorni ancora indefiniti e per rispondere infine al quesito “Che ruolo aveva avuto mio padre nella fuga degli ebrei?”. Molte sono le domande che agitano la mente di Bianca e per completare il puzzle della storia della sua famiglia decide di partire da una dichiarazione rilasciata dal padre il 5 luglio 1945 – una sintesi del suo comportamento dopo l’8 settembre - che nel corso della narrazione suddivide in due parti: gli internati e l’attività antifascista. L’obiettivo dell’autrice, perfettamente raggiunto nel libro, è trovare prove o testimoni di quanto il padre affermava in essa.
Compulsando archivi, analizzando saggi e avvalendosi dell’opera del professor Alan Poletti “Una seconda vita”, Bianca Pilat ci fa conoscere la drammatica situazione degli ebrei in Jugoslavia dopo il 1940 e del loro esodo verso l’Italia fino ad arrivare ad Aprica, nonchè le tragiche conseguenze delle leggi razziali, indagando con eccezionali doti investigative per scovare documenti o notizie che avvalorassero le affermazioni del padre contenute nella dichiarazione del 5 luglio 1945. Fra questi di grande valore è il documento firmato da Giovanni Pustischek e Imro Pollak in nome dei 218 internati di Aprica in cui esprimono la loro gratitudine per il brigadiere Bruno Pilat che con il suo comportamento ha alleviato la loro posizione di internati distinguendosi nei momenti più gravi dopo l’Armistizio dell’8 settembre 1943…”mettendo a propria responsabilità e aiutando attivamente gli internati che volevano allontanarsi dall’Aprica e passare in Svizzera”. In qualità di comandante della stazione di Aprica la vita di Bruno Pilat si intreccia “con quella gente disperata, sradicata dalla terra, dalla sua cultura e ben felice di questo provvisorio rifugio”. Nelle pagine che seguono, il cui approfondimento lasciamo alla curiosità dei lettori, l’autrice ripercorre, con l’ausilio di documenti storici, gli eventi che hanno coinvolto attivamente il padre nella fuga degli ebrei in Svizzera nell’ottobre del 1943, ricordando altresì l’indiscutibile apporto di persone come Don Carozzi e Don Vitalini nella difesa dei perseguitati dal regime nazifascista e nel progetto di fuga in Svizzera. Un interessante quadro storico emerge nella seconda parte della Dichiarazione di luglio, incentrata sulla collaborazione di Bruno Pilat con il movimento partigiano che operava sul territorio. E’ una parte della vita del padre che riguarda la sua attività antifascista, totalmente sconosciuta a Bianca, che viene alla luce sulla base di documenti d’archivio e testimonianze preziose grazie alle minuziose ricerche condotte nel corso degli anni dall’autrice stessa.
Deportato in Germania, su denuncia del sottotenente Mario Poggi della Milizia confinaria per la sua attività antifascista, la statura morale di Bruno Pilat è racchiusa nella risposta alla figlia Bianca che lo interroga sulla motivazione per cui scelse di non fuggire in Svizzera evitando in tal modo la prigionia in Germania: “E chi avrebbe difeso la popolazione?”. Fu una scelta coraggiosa dettata dalla sua coscienza di uomo integro che, al contrario di altri, rifiutò l’indifferenza come segno identificativo. Il libro di Bianca Pilat, arricchito con documenti e dichiarazioni di encomio, attestati di onorificenza, fotografie di amici e familiari è un’opera frutto di mesi di intenso lavoro la cui lettura è un’occasione preziosa per aggiungere un nuovo tassello alla conoscenza storica di quegli anni oscuri e per rendere omaggio all’operato di eroi “a loro insaputa” come Bruno Pilat, Giovanni Palatucci, Guelfo Zamboni che seppero fare onore al proprio Paese prodigandosi per la salvezza di chi era perseguitato da un regime iniquo e diventando per tutti un esempio di coraggio e dedizione al prossimo.
Giorgia Greco