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Il Manifesto Rassegna Stampa
07.11.2018 Sul Manifesto odio contro Israele, ma è l'unico che scrive delle proteste contro Abu Mazen per le pensioni dell'Anp
Nei pezzi di Chiara Cruciati, Michele Giorgio

Testata: Il Manifesto
Data: 07 novembre 2018
Pagina: 9
Autore: Chiara Cruciati - Michele Giorgio
Titolo: «In fila ai checkpoint israeliani e davanti alle banche. Ma i giovani lottano ancora - II no dei lavoratori palestinesi alla riforma delle pensioni»
Riprendiamo dal MANIFESTO di oggi, 07/11/2018, a pag. 9, con il titolo "In fila ai checkpoint israeliani e davanti alle banche. Ma i giovani lottano ancora", il commento di Chiara Cruciati; con il titolo "II no dei lavoratori palestinesi alla riforma delle pensioni" il commento di Michele Giorgio.

Il pezzo di Chiara Cruciati è unidirezionalmente contro Israele, descritto come violento, militarista e intollerante. I terroristi, nel suo commento, diventano "giovani che lottano" e l'attesa a un checkpoint più grave degli omicidi compiuti da Hamas. Nella stessa pagina, il Manifesto pubblica anche il commento di Michele Giorgio. Anche questo, nei toni, è del tutto tutto contro Israele -come sempre-, ma almeno affronta un argomento che non viene ripreso da nessun altro quotidiano oggi, ovvero la protesta nelle città amministrate dall'Anp contro la riforma pensionistica voluta da Abu Mazen. Nessuno ne scrive tranne il giornale che è, insieme ad Avvenire, il più scatenato contro Israele in Italia.

Ecco gli articoli:

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Chiara Cruciati: "In fila ai checkpoint israeliani e davanti alle banche. Ma i giovani lottano ancora"

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Chiara Cruciati

Il traffico del primo mattino dopo il checkpoint israeliano che divide in due il villaggio palestinese di Numan al Khas, a nord di Betlemme, dà il tempo di osservare l'avanzata del cemento nella colonia di Har Homa. Ha due decenni di vita, costruita nel 1998 sulla collina di Abu Ghneim: i palazzi a sei, sette piani hanno sostituito il bosco dove i palestinesi andavano per un picnic. Negli ultimi anni si è moltiplicata, negli ultimi mesi è esplosa. Ha occupato l'intera collina e prosegue rapida verso valle. Non si parla d'altro che di status quo, di immobilità, ma lo stallo è da una parte sola: i palestinesi sembrano fermi, Israele avanza.

Il traffico del primo mattino dopo il checkpoint israeliano che divide in due il villaggio palestinese di Numan al Khas, a nord di Betlemme, dà il tempo di osservare l'avanzata del cemento nella colonia di Har Homa. Ha due decenni di vita, costruita nel 1998 sulla collina di Abu Ghneim: i palazzi a sei, sette piani hanno sostituito il bosco dove i palestinesi andavano per un picnic. Negli ultimi anni si è moltiplicata, negli ultimi mesi è esplosa. Ha occupato l'intera collina e prosegue rapida verso valle. Non si parla d'altro che di status quo, di immobilità, ma lo stallo è da una parte sola: i palestinesi sembrano fermi, Israele avanza.

PIÙ A NORD, costeggiando il muro israeliano che chiude Gerusalemme, Ramallah si mostra nella sua maestosa contraddizione. Anche qui si costruisce, e tanto. Come funghi sorgono nuovi palazzi in pietra bianca, aprono i battenti bar all'europea, viene inaugurata la filiale dell'ennesima banca, passo in più verso l'indebitamento, fenomeno nuovo per una società abituata a vivere dei propri risparmi, a tirare su una casa o ad aggiungere un piano a quella di famiglia solo dopo il matrimonio di un figlio. Oggi non è più così: i prestiti sono divenuti moneta quotidiana per tappare i buchi di stipendi poveri, affittare un appartamento, pagare l'università.

«LA PRIMA INTIFADA è scoppiata quando nei Territori occupati non esistevano muri né checkpoint, potevamo visitare Jaffa, Gaza, Gerusalemme. Il tasso di disoccupazione era basso. Scoppiò perché la gente non combatteva per il pane, ma per la libertà». Saed era ragazzo durante la prima Intifada, adulto nella seconda e oggi, a un'Intifada, non ci pensa più. Ha due figli e da mesi non riceve lo stipendio: l'organizzazione per cui lavora non riesce nemmeno a coprire le spese telefoniche. Ma quale Intifada. «I palestinesi sono soli, hanno individualizzato questa società». Baha ha 30 anni e con un amico si è inventato una piccola agenzia di turismo alternativo: porta in giro per la Cisgiordania persone da tutto il mondo che vengono a vedere l'occupazione. «Non ho mai creduto nel "leaderismo" ma oggi l'assenza di una classe dirigente credibile ha effetti disastrosi. Israele applica al meglio la strategia del cutting the grass, tagliare l'erba: appena spunta una figura carismatica, con un'idea, una visione, sparisce. Dietro le sbarre o sotto terra. Ricordi Bassem al-Araj? Era un intellettuale, un attivista, sapeva mobilitare la nuova generazione. Parlava di rivoluzione, si ispirava a Gramsci. L'hanno cercato per due mesi, poi l'hanno ammazzato a casa sua». L'atmosfera di stagnazione pare avvolgere tutto. Dal museo di Arafat a Ramallah, dove la curatissima esposizione della storia palestinese dai primi del Novecento alla morte del leader, nel 2004, ha cristallizzato il movimento di liberazione nazionale; ai checkpoint dove all'alba i palestinesi si mettono in fila per ore, stretti tra gabbie di ferro, per un lavoro a giornata in Israele, con il sollievo finanziario pagato da un lavoro che lascia senza tempo, senza riposo, senza tregua.

MA DALL'ERBA non tagliata spuntano entusiasmi. Come a Khan al-Ahmar. L'accampamento nel centro del villaggio beduino è tappezzato di striscioni dei comitati locali e delle organizzazioni che in questi mesi sono parte attiva della resistenza contro la demolizione. A terra i materassi sono quasi tutti pieni: gli attivisti riposano in vista di un'altra notte di veglia e timore dell'arrivo dei bulldozer israeliani. Tra gli striscioni c'è quello del Protection and Sumud Committee, comitato appena nato tra le 40 comunità del sud di Hebron. Ha una trentina di membri stabili, ci dice Basil Adraa, nel villaggio di At Tuwani: fanno interposizione fisica contro le demolizioni, ricostruiscono case distrutte e fanno da scorta ai contadini per difenderle dagli attacchi dei coloni. «II nostro scopo, di noi giovani, è ricostruire l'unità palestinese dalla base — continua Basil, 21 anni, neolaureato in legge ad Hebron — I villaggi resistono da soli, non esiste un coordinamento generale. Stiamo a Khan al-Ahmar non per mera solidarietà ma perché uniti siamo più forti».

BASIL GUARDA OLTRE le colline pietrose del suo villaggio, microcosmo delle politiche di occupazione e di resistenza popolare, dove gli abitanti da tempo "impongono" la loro agenda: hanno costruito la scuola nonostante i divieti israeliani e costretto Tel Aviv a riconoscere il master plan di epoca ottomana e ad allacciare il villaggio alle reti idrica ed elettrica. At Tuwani da simbolo di resistenza efficace è divenuto anche il motore di iniziative simili: ad alcuni villaggi vicini ora l'acqua arriva con le tubature che partono da qui.

LA STRADA che da at Tuwani porta a Jiftlik, Valle del Giordano, è un percorso a ostacoli tra colonie e bypass road, strade israeliane solo in parte accessibili ai palestinesi. Qui, a metà ottobre, si sono presentati i bulldozer dell'esercito israeliano. Nulla di nuovo sotto il sole del territorio con la più bassa altitudine della Terra: 400 metri sotto il livello del mare e terre fertilissime, le più ricche della Palestina storica. Nasser ci mostra i pezzi di ferro che si mescolano alle stoffe di quella che era una casa, una baracca, poco più: ai palestinesi è vietato costruire, dice la legge israeliana in aperta violazione del diritto internazionale. Vicino a quell'ammasso Nasser racconta le lotte delle comunità contro le demolizioni, tra chi ricostruisce subito e chi prova la via legale nelle corti israeliane, sapendo di aver già perso ma sperando comunque di guadagnare tempo. Un senso di soffocamento, come il clima appiccicoso di metà ottobre, si respira di nuovo a Gerusalemme, oltre il muro. Dai tetti della Città Vecchia si vede quello che i turisti che ci camminano sotto non immaginano: le famiglie palestinesi costrette nelle piccole stanze degli hosh, i cortili, con una casa ogni due occupata da gruppi estremisti israeliani (coloni giovanissimi che si danno il cambio due-tre volte l'anno per mantenere fissa la presenza) e un dedalo di telecamere con riconoscimento facciale che seguono i palestinesi ovunque. «Non si tratta solo di memoria, ma di immaginazione — ci dice D. G., attivista palestinese — Dipende da cosa sai immaginare: un'altra cacciata da queste terre o la capacità di restarci? Gerusalemme sta cambiando volto a una velocità impressionante. Israele sta mettendo in pratica un piano urbanistico per trasformare la città in un museo a cielo aperto, giardini, siti archeologici, centri commerciali dove i turisti israeliani e stranieri sostituiscano i residenti palestinesi. Dove la vetrina sostituisca la vita».

IL PROCESSO È GIÀ in corso, nuovi progetti spuntano a ogni angolo. Il più inquietante, per il nome stesso che si porta addosso, è il Museo della Tolleranza. E in via di costruzione sopra il più antico cimitero arabo e islamico della città, il cimitero di Mamilla. Per fare spazio alla tolleranza in vetrina viene strappata via l'utopia di una società uguale e democratica.

Michele Giorgio: "II no dei lavoratori palestinesi alla riforma delle pensioni"

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Michele Giorgio
     Abu Mazen

Fadi Arouri si è dannato l'anima in queste settimane. È stato in prima fila il 15 ottobre quando a Ramallah sono scesi in strada oltre 10mila lavoratori palestinesi. E continua a prendere parte a tutte le proteste popolari tenendosi in contatto con gli attivisti a Hebron, Betlemure e Nablus. Ieri era ancora li, ad animare un nuovo raduno a Ramallah assieme a compagni di lotta e amici.

«PURTROPPO I NOSTRI sforzi non hanno raggiunto l'obiettivo di congelare o modificare profondamente la riforma del sistema di previdenza sociale prima che entrasse in vigore il 1 novembre. Ma non ci arrendiamo, continueremo a combattere un progetto che a parole tutela lavoratori e pensionati ma che in realtà rischia di provocare povertà diffusa nei prossimi anni», ci dice Arouri rappresentando le preoccupazioni di decine di migliaia di lavoratori dipendenti e liberi professionisti. «Il premier Rami Hamdallah — aggiunge — aveva garantito lo spazio per una trattativa vera sui punti più contestati, ma la riforma introdotta è simile all'originaria». Le proteste per ciò vanno avanti contro il ministro del lavoro Mamoun Abu Shahla, che è anche presidente del neonato Istituto per la Previdenza Sociale, ed includono oltre a sindacati, ordini professionali e forze politiche di sinistra, anche porzioni significative del partito Fatah, spina dorsale dell'Autorità nazionale palestinese (Anp). La legge non è nuova, la prima bozza è del 2016. Poi è stata modificata. Il deputato Bassam Salhi, un ex comunista, la giudica equilibrata: «Abbiamo ottenuto la riduzione al 7% (dal 7,5%) delle trattenute sulla busta paga dei lavoratori e l'aumento del contributo dei datori di lavoro al 9% (dall'8,5%), non si poteva fare di più». Un altro sostenitore della legge, Wisam Rafidi, professore di scienze sociali dell'Università di Betlemme, ha scritto sul sito di Watan Tv «che dietro le proteste ci sono i proprietari di aziende che vogliono tutelare i loro interessi e non i dipendenti».

CHI PROTESTAVA oltre i numeri, guarda alla situazione politica e alla perenne incertezza che avvolge la vita di ogni palestinese. E si pone interrogativi seri sul destino dei fondi che saranno raccolti dall'Istituto perla Previdenza Sociale. «II governo si comporta come se ci fosse lo Stato di Palestina—protesta Omar Misk, commerciante—ma noi non abbiamo uno Stato, siamo sotto occupazione israeliana. Oggi l'Anp esiste ma chi ci garantisce che esisterà tra due anni o anche solo tra sei mesi L'Anp crolla in un attimo se solo Israele vuole. E i nostri contributi che fine faranno? Temo di versare inutilmente soldi di cui ho bisogno per vivere». Pochi credono che imprese e aziende palestinesi, deboli (e in buona parte indebitate) come l'intero sistema economico penalizzato dall'occupazione, saranno in grado di versare il Tfr ai dipendenti. Altri avvertono che, in ogni raso, le pensioni saranno da fame. «Mi hanno spiegato che l'assegno che riceverò una volta in pensione corrisponderà appena al 30%, massimo al 40% dell'ultimo stipendio. Come potrò vivere, qui la vita costa e costerà sempre di più», si lamenta Bilal Barakat, insegnante.

PER I PIÙ CRITICI la riforma sarebbe «una farsa». L'Anp, dicono, non pensa ai diritti dei lavoratori ma a raccogliere attraverso l'Istituto per la Previdenza la liquidità per coprire il suo deficit e il mancato arrivo delle donazioni Usa, centinaia di milioni di dollari tagliati nei mesi scorsi dall'amministrazione Trump. L'Anp vorrebbe mettere le mani sui contributi versati in Israele, fin dagli anni Settanta, dai manovali palestinesi dei Territori occupati. Fondi che Israele, rispettando gli Accordi di Parigi del 1994, potrebbe versare in tempi brevi L'entità non si conosce. Alcune fonti dicono 10 miliardi di shekel (2,7 miliardi di dollari), altre 50 miliardi di shekel (13,5 miliardi di dollari). Fadi Arouri ci riferisce la domanda che si pongono i palestinesi che partecipano alle proteste: «Questi miliardi andranno a consolidare il fondo perle pensioni o saranno dirotta ti in altre direzioni?».

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