Donald Trump come Ronald Reagan
Analisi di Antonio Donno
Donald Trump Ronald Reagan
Durante la prima settimana della sua presidenza, Ronald Reagan così si espresse a proposito dei dirigenti dell’Unione Sovietica: “La sola moralità che essi riconoscono si identifica con ciò che incrementa la loro causa, nel senso che essi riservano a se stessi il diritto di commettere qualsiasi crimine, di mentire, di ingannare”.
Michael R. Pompeo, Segretario di Stato di Trump, prende a prestito quest’affermazione di Reagan per definire la politica dei dirigenti della Corea del Nord e dell’Iran nell’attuale scenario internazionale. Nel fascicolo di novembre/dicembre 2018 di “Foreign Affairs”, Pompeo riassume e spiega l’atteggiamento di Donald Trump nei confronti dei due “Stati canaglia”. L’azione di Trump contro l’Iran ha capovolto la politica di appeasement inaugurata da Obama. Secondo Trump, quella politica non produceva altro che la sensazione, da parte degli ayatollah, di godere di una sorta di impunità, grazie alla quale essi potevano continuare a sviluppare la loro politica nucleare, questa volta senza intoppi. Se Obama aveva preferito un atteggiamento di “leading fron behind”, Trump, viceversa, intende ora manovrare all’interno stesso dei problemi, ma senza coinvolgersi militarmente, se non in casi estremi. La “dottrina Trump”, perciò, intende confrontarsi con i due “Stati canaglia” in due diversi modi: diplomaticamente con Pyongyang – in considerazione dell’apparente disponibilità del dittatore coreano, tutta da verificare – e, al contrario, imponendo severissime sanzioni economiche all’Iran.
In quest’ultimo caso, tale decisione, diversamente dall’approccio con la Corea del Nord, punta a incrementare il malcontento interno, che si è manifestato più volte e si manifesta continuamente in zone remote e isolate del Paese, senza alcuna copertura mediatica. Tale politica si differenzia da quella intrapresa con Pyongyang, perché nella Corea del Nord non esiste un movimento di contestazione del sistema.
Tale differenziazione sta a dimostrare come l’Amministrazione Trump intenda muoversi nello scenario internazionale a seconda dei contesti e dei pericoli connessi. Accantonata momentaneamente la questione nord-coreana, dopo le fasi iniziali dei colloqui e degli accordi – questi ultimi sotto continuo scrutinio –, la politica iraniana di Trump è all’ordine del giorno.
Come scrive Pompeo, Washington si trova a confrontarsi con “un’elite iraniana che assomiglia ad una Mafia per la sua corruzione e le sue attività illegali”.
A dimostrazione di questa affermazione, Pompeo elenca le quantità enormi di denaro che sono nella disponibilità dei massimi dirigenti iraniani, da Larijani a Shirazi, da Kashani allo stesso Khamenei.
La popolazione iraniana, sempre più misera, sa bene tutto ciò e lo va contestando in modo via via più esplicito, nonostante le gravi sanzioni che colpiscono i dimostranti.
Scrive ancora Pompeo: “L’avidità del regime ha creato una frattura tra il popolo iraniano e i suoi leaders, rendendo difficile per gli esponenti dello stesso regime persuadere i giovani iraniani di essere l’avanguardia della prossima generazione della rivoluzione”.
Esattamente come successe nell’Unione Sovietica, dove al grande benessere dei dirigenti faceva riscontro la povertà della popolazione. Dunque, le armi che Trump sta utilizzando contro l’Iran sono la deterrenza e le sanzioni economiche; le quali stanno producendo nel popolo riflessi negativi per il regime: “Lascia la Siria e pensa a noi” o “Il popolo soffre la fame mentre i mullah vivono come dei”: questi sono gli slogan che si sono sentiti nelle manifestazioni.
La repressione è durissima: “I leaders chiamano cinicamente suicidi queste morti”. Quando Reagan, conclude Pompeo, si espresse nel modo citato all’inizio, gli analisti di politica estera lo derisero. Ma gli accordi di Reykjavik del 1986 e, infine, il crollo del regime comunista sovietico gli hanno dato ragione.
Antonio Donno