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La Stampa Rassegna Stampa
27.10.2018 E' morto Lello Di Segni, l'ultimo sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani nel '43
Commento di Ariela Piattelli

Testata: La Stampa
Data: 27 ottobre 2018
Pagina: 27
Autore: Ariela Piattelli
Titolo: «Era l'ultimo sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani nel '43»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 27/10/2018, a pag.27 con il titolo "Era l'ultimo sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani nel '43" il commento di Ariela Piattelli

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Ariela Piattelli                  Lello Di Segni

Quando lo presero i nazisti quel sabato mattina di 75 anni fa a via del Portico d'Ottavia, nel ghetto di Roma, dalla finestra vide i volti delle persone inermi davanti allo scempio della retata e quel ricordo non lo lasciò per tutta la vita.
Ieri è scomparso Lello Di Segni, 92 anni, l'ultimo sopravvissuto alla deportazione degli ebrei romani del 16 ottobre 1943. Era l'ultimo testimone, perché i 15 sopravvissuti ad Auschwitz arrestati all'alba del «Sabato nero» che avevano condiviso con lui l'orrore, negli ultimi anni erano mancati uno ad uno, spingendolo sempre di più a farsi portatore della memoria della più grande deportazione in Italia, e di tutte gli orrori che aveva visto in un orribile viaggio durato due anni e dal quale miracolosamente tornò. Fu arrestato con tutta la famiglia «e di certo non poteva immaginare il tragico destino — spiega lo storico della Shoah Marcello Pezzetti -, ma era un ragazzo con una certa consapevolezza: già quando la comunità ebraica romana aveva consegnato ai nazisti i 50 chili d'oro, lui sapeva che ciò non sarebbe servito a nulla, e anzi, le cose sarebbero peggiorate. Quando i nazisti caricarono gli ebrei rastrellati sui camion, Lello non tentò di scappare, decise di restare con i genitori Cesare ed Enrica e con i suoi fratelli, come fecero tanti ragazzi come lui». Poi ad Auschwitz lo separarono dalla madre e dai fratelli «non sapeva che li avrebbero mandati subito alle camere a gas. Diceva sempre "a mia madre non le ho detto neanche ciao. Non ho salutato i miei cari" e questo fu sempre il suo più grande rammarico». E invece, nella quarantena del campo di sterminio, salutò suo padre, convinto di non rivederlo mai più: «Lelio era esile, un ragazzino. Il padre pensava che non ce l'avrebbe fatta. Piansero, si abbracciarono e si dissero addio. Fu il momento più drammatico della selezione: Cesare affidò Lello ad Arminio Wachsberger l'unico ebreo deportato il 16 ottobre che parlava tedesco, e dunque faceva da interprete. Disse ad Arminio "guarda il mio ragazzo" e così fu». Cesare finì a Jawischowitz, un campo micidiale, collegato con una miniera di carbone dove lavoravano i deportati. Lello Di Segni fu mandato insieme all'interprete e a pochi altri a Varsavia, in un posto dove non c'era nulla, solo devastazione e montagne di macerie: era il ghetto dopo la rivolta. «I prigionieri li dovevano costruire un lager e smantellare le macerie. Trovarono di tutto, sono loro i veri testimoni di ciò che restava della rivolta del ghetto di Varsavia. Lello raccontava che lo colpì molto il ritrovamento delle posate, perché per lui significavano vita». A Varsavia ci restò quasi un anno «un tempo infinito in quelle condizioni. La cosa più terribile fu il freddo che ha patito». Con l'avanzamento dell'esercito russo i nazisti lo mandarono in Germania, «fece la marcia della morte da Varsavia al campo di Allach. Poi arrivò a Dachau che non si reggeva più in piedi». Alla liberazione tornò in Italia, a Milano «temeva il ritorno a Roma, convinto non ritrovare più nessuno. Così lo andò a prendere uno zio per riportarlo a casa. E dopo due mesi tornò anche suo padre». Per molti anni Lello Di Segni rimase restio a raccontare l'orrore di cui fu testimone, non volle mai tornare a visitare Auschwitz: «Mi diceva che ci sarebbe tornato soltanto con i negazionisti per mostrargli la verità — conclude Pezzetti —. E per spiegare in che modo i tedeschi volevano ridurre gli ebrei come animali, faceva l'esempio del suo numero tatuato sul braccio, definendolo "numero di bestia"». «La perdita di Lello Di Segni, oltreché essere un dolore per la nostra Comunità, è purtroppo un segnale di attenzione e un monito verso le generazioni future - ha detto la presidente della Comunità Ebraica di Roma Ruth Dureghello -. Con lui viene a mancare la memoria storica di chi ha subito la razzia del 16 ottobre tornando per raccontarcela».

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