Qual è la via del vento
Daniela Dawan
e/o euro 17
Copertina e autrice
“Il sentimento della perdita è una malattia, si espande veloce, inocula la convinzione che ogni sforzo sia vano; che tutte le cose, affetti o progetti, siano destinati a sicura sconfitta. Crea un incantesimo che cristallizza il tempo nel momento e nel luogo in cui si è verificata la perdita”.
Il senso profondo di una perdita incolmabile e la nostalgia per un luogo amato che si è dovuto abbandonare sono i sentimenti che hanno riempito il cuore di quegli ebrei cacciati dai loro paesi d’origine, Libia, Egitto, Iraq, le cui vicende sono state narrate nelle opere di autori prestigiosi come Raphael Luzon, Sami Michael o Eli Amir che hanno vissuto sulla loro pelle quella tragedia: un dramma privato e sociale al contempo, le cui conseguenze sono arrivate fino ad oggi. Grazie a quei romanzi o mémoire abbiamo preso coscienza di una realtà storica poco conosciuta: l’esodo forzato di comunità ebraiche fiorenti, disgregatesi a seguito di persecuzioni e discriminazioni messe in atto nei paesi arabi dopo la nascita dello Stato d’Israele e dopo la Guerra dei Sei Giorni. Il bel romanzo di Daniela Dawan “Qual è la via del vento” in libreria in questi giorni per le edizioni e/o, è legato a una di queste storie, alle vicende degli ebrei di Libia. Costretta a fuggire ancora bambina con la sua famiglia da Tripoli a causa degli eventi drammatici che si scatenano in Libia dopo la Guerra dei Sei Giorni, Dawan giunge in Italia nel giugno del 1967, diventa avvocato penalista, poi Consigliere della Suprema Corte di Cassazione ed esordisce nella narrativa con il libro “Non dire che col tempo si dimentica” (Marsilio, 2010) ambientato in Tunisia all’epoca delle leggi razziali. “Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana, gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna”: è a questi versi dell’Ecclesiaste che si ispira il titolo del secondo romanzo di Daniela Dawan, in parte autobiografico, che ha per protagonista una famiglia ebraica, i Cohen, con Ruben il capofamiglia, un affermato professionista, la moglie Virginia, una donna avvenente e madre della piccola Micol, una bimba un po’ fragile e sognatrice che convive con il fantasma di una sorella mai conosciuta e della quale è vietato parlare per non addolorare i genitori.
Le rispettive famiglie d’origine appartengono a due mondi molto diversi l’uno dall’altro: lontani dalle tradizioni religiose gli Asti, i genitori di Virginia, di origini italiane, rigorosamente osservanti i Cohen, ebrei tripolini da generazioni, che accolgono con evidente difficoltà la decisione del figlio Ruben di sposarsi con una donna così giovane e indipendente. Nel giugno del 1967 allo scoppio della Guerra dei Sei Giorni si scatena nelle vie di Tripoli una violenta caccia all’ebreo, i cimiteri e le sinagoghe sono profanate, i negozi saccheggiati e le case degli ebrei segnate con il gesso fino a quando i Cohen, barricati in casa da giorni, non riescono a procurarsi con l’aiuto di un amico arabo i visti per espatriare in Italia. Diviso in due parti, il romanzo di Daniela Dawan contempla sia una dimensione intima e familiare che una dimensione storica in cui emerge con una ricostruzione ricca di dettagli la situazione politica della Libia dopo il 1945, in particolare nel 1967 con la Guerra dei Sei Giorni e nel 1969 con il colpo di stato che depose re Idris e portò al potere Gheddafi. Scorci di rara bellezza sono quelli che descrivono la “Hara Kebira, il ghetto grande, nella parte antica della città, dove la costa si protende più marcatamente verso il mare, ci abitavano in tanti e diversi: arabi, ebrei, greci e maltesi…”. Qui giocano insieme per molti anni Ruben e il suo amico arabo Fiallah, anche se iniziano a germogliare i primi semi di quell’odio che avrebbe portato alla cacciata degli ebrei dalla Libia (“Un piccolo seme di odio cancella secoli di rispetto e comprensione”).
Attraverso le vicende dei protagonisti l’autrice si sofferma sul diverso approccio al sionismo della comunità libica che accende di entusiasmo gli animi di giovani come Yossi, il fratello di Ruben che, stanchi di subire le angherie e i soprusi degli arabi, sognano la Terra Promessa e si preparano in vista dell’alyah ma lascia indifferente Ruben convinto che il suo paese fosse la Libia e “che bisogno avevano di diventare sionisti e ingaggiare una lotta senza fine col popolo in mezzo al quale erano sempre vissuti?”. Se la prima parte del libro è centrata sull’infanzia della piccola Micol e sulla fuga dei Cohen dalla Libia, nella seconda, con un balzo temporale che ci porta al 2004, incontriamo Micol adulta, un avvocato di successo che dedica al lavoro più tempo che alla vita sentimentale. Nell’esilio a Roma il padre Ruben non ha trovato la forza per inserirsi nel nuovo ambiente e piano piano si è lasciato andare, vittima di un male incurabile. Se l’autrice non è mai tornata in Libia, la protagonista del suo romanzo viene contattata da un gruppo di ebrei espatriati in Italia e invitata a recarsi con loro a Tripoli perché esiste la possibilità di ottenere dei risarcimenti dato che il governo di Gheddafi sembra voler riprendere i contatti con gli ebrei tripolini. Il racconto del viaggio che consentirà a Micol di fare luce sulla morte della sorella Leah e di riappropriarsi di un passato misterioso, è una delle parti più intense e struggenti del libro, ricca di colori, immagini, suggestioni e memorie che si dispiegano in una città molto diversa dai suoi ricordi di bambina “…sente l’emozione sopraffarla. Portata dal vento arriva l’invocazione del muezzin. Proviene dal minareto della moschea di Gurgi, la stessa che intravvedeva ogni sera dalla sua camera a Sciara Haiti”. Prima di tornare alla vita di ogni giorno in Italia Micol prende coscienza che quel viaggio a ritroso nel tempo, nei luoghi della sua infanzia ha scardinato il muro che aveva eretto dentro di sé per difendersi dalla forza dei sentimenti e finalmente “la pervade un sentimento nuovo, sarebbe troppo riduttivo chiamarlo felicità. E’ più simile a uno stato di beatitudine, di serenità, di pace”.
Un romanzo da assaporare fino in fondo quello di Daniela Dawan perché attraverso una commovente e dolorosa vicenda familiare riaccende l’attenzione del pubblico sulla drammatica situazione politica in cui versa oggi la Libia e perché riporta alla memoria la tragedia di quegli ebrei – stime ufficiali parlano di circa 856 mila – che furono cacciati dalle proprie case, dalle proprie città, da quelle terre di sole, deserto e mare che si estendono dal Medioriente fino al Magreb. “La capacità di conservare i ricordi – spiega Daniela Dawan – è l’unica sfida alla morte e all’oblio delle esperienze. La memoria è un patrimonio”.
Giorgia Greco