Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 23/10/2018, a pag.37, con il titolo 'Che libertà scrivere di ebrei scorretti' l'intervista di Susanna Nirenstein allo scrittore israeliano Yaniv Iczkovits.
Susanna Nirenstein
Siamo nel 1894, nella zona di residenza dove lo zar aveva confinato gli ebrei dell’impero. Tre anni prima del Congresso sionista organizzato da Theodor Herzl. Il mondo ebraico è diviso tra profonda adesione alla tradizione e desiderio di emancipazione in Palestina, America, Europa. Nel piccolo shtetl di Motal, Fanny Speismann, figlia di macellatori rituali, decide di partire, col suo affilato coltello legato alla coscia, per riparare (parola importantissima, Tikkun, come recita il titolo del romanzo, riparazione per migliorare il mondo) al torto subito dalla sorella Mende, lasciata dal marito, un commerciante con velleità messianiche, che è sparito nel nulla. Yaniv Iczkovits, quarantenne israeliano con un passato di narrativa intima e radicata nell’oggi (unico tradotto in Italia prima di questo, Batticuore, Giuntina) ha scritto un romanzo d’avventura, titolo completo: Tikkun, o la vendetta di Mende Speismann per mano della sorella Fanny (Neri Pozza, per l’ottima traduzione di Ofra Banner e Raffaella Scardi). Una scelta inconsueta in questa generazione di autori. Per di più con al centro un personaggio femminile e molto umorismo.
Yaniv Iczkovits La copertina (Neri Pozza ed.)
Com’è che un giovane autore israeliano, studioso di filosofia contemporanea, decide di scrivere del mondo yiddish? «Sono giovane, ma la mia anima è anche antica: siamo pieni di gesti, parole, abitudini che spesso non sappiamo da dove vengano. Credo che in Israele siamo disconnessi dalle nostre origini. Abbiamo in mente la Bibbia, e poi il concetto che Israele fu fondata dopo il declino della civiltà europea, ma dentro di noi non è iscritto il cuore della storia: 2000 anni in cui gli ebrei vissero in altri paesi e accanto ad altre religioni. Possiamo dire che abbiamo cancellato quell’ebreo e creato il nuovo ebreo, ma non credo sia possibile. Così sono andato alle origini, senza le quali non posso capire la mia attuale esistenza».
Paura, chiusura, egoismi, superstizione: dà un’ immagine orribile della comunità ebraica di quei tempi. Erano così tremendi gli ebrei di allora? «Sì e no, come siamo tutti. Ma non avevo intenzione di dipingere un’immagine realistica. Volevo esprimere il mio punto di vista sul loro e il nostro mondo. E la verità è che in genere il pianeta yiddish ci viene mostrato come naïve, sacro, pio... Ma erano esseri umani, e dunque pieni di difetti. Quando descrivi gli ebrei hai sempre paura che qualcuno ti dia dell’antisemita. Ma non è possibile scrivere secondo le regole del politically correct. La mia religione dice che siamo unici, il popolo eletto. Mi lasci dubitarne».
Nel romanzo gli ebrei sono attanagliati dalla paura. Pensa che dopo la nascita di Israele sia tutto cambiato? «La paura è ancora più forte. È questa l’ironia della situazione. Siamo arrivati in Israele dall’esilio e ce lo siamo portati dietro, insieme agli antichi timori che sono penetrati nel nostro rifugio. Di fatto, anche se siamo forti, ci vediamo piccoli, fragili, vulnerabili, insicuri».
La società che descrive è in parte immobilizzata nelle tradizioni, in parte freneticamente in partenza per New York e la Palestina. «Il Congresso sionista era alle porte, gli ebrei cominciavano a considerare altre possibilità. La religione si era indebolita, la società dello shtetl iniziava a collassare. Pensi che situazione pazzesca. Da un lato la tradizione, dall’altro la via del ricongiungimento con la terra dei Padri o cercare oro in America».
C’è molto humour. È stato l’umorismo yiddish a ispirarla? «Nello shtetl c’erano delle strategie di difesa come lo humour, non prendere tutto sul serio era essenziale. Bashevis Singer diceva che l’yiddish non è il linguaggio della vittoria. È vero: il mondo soprattutto lo si accettava, senza cercare di cambiarlo. Israele invece è così complicato che è rimasto poco spazio per un po’ di ironia».
Perché ha scelto un titolo così complicato come "Tikkun"? «È un termine potente nella tradizione ebraica. Parla di correggersi e riparare. In fondo è la questione più importante del romanzo. Come rimedi agli errori della tua vita? Pensi di doverlo fare? Lo puoi fare? E ti è permesso usare la violenza? Cercare la vendetta? Israele è un Tikkun in questo periodo della nostra storia?».
Molti parlano di morte del romanzo. Lei ha raccontato il suo in modo fluviale, con mille personaggi. Che tipo di romanzo può funzionare nel XXI secolo? «Non credo il romanzo morirà mai. La gente paragona i libri alle serie tv, ma non capisco il confronto. Per me un romanzo è prima di tutto la forma più intima dell’arte. Non la posso guardare con un amico sullo schermo, ho bisogno di isolarmi per leggere. Non c’è nessun’altra creazione artistica che chieda una tale concentrazione. Se la voglio condividere te la devo leggere, creando uno spazio di enorme confidenza. E dove c’è interiorità, c’è libertà».
Molti romanzi di adesso sono lunghi e complessi. Il "mattone" ti tira più dentro? È una ricetta? «Non credo la lunghezza abbia importanza. Penso che uno riconosca un grande romanzo fin dal primo paragrafo. Che le pagine siano 100 o 1000, non conta nulla».
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