Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 17/10/2018, a pag.11, con il titolo "Sequestri, trappole e inganni. Così Riad elimina il dissenso" il commento di Giordano Stabile.
A destra: Donald Trump con Mohammed Bin Salman
Tutti i media continuano a prendere di mira l'Arabia Saudita. Non a caso lo fanno adesso, quando per una comprensibile convergenza di interessi geopolitici l'Arabia Saudita si è schierata con gli Usa di Donald Trump in ottica anti-Iran: prima, la violazione dei diritti umani e i crimini del regime saudita lasciavano del tutto indifferenti i nostri giornali e telegiornali. I media, parallelamente, ignorano i crimini del regime turco e iraniano, i più grandi sostenitori del terrorismo in Medio Oriente.
Sul Foglio compare la zampata di Giuliano Ferrara che, stanco di attaccare a ripetizione Trump, comincia a farlo anche con Mohammed Bin Salman, definito addirittura "il principe folle".
Ecco l'articolo:
Giordano Stabile
Il giallo Khashoggi corre verso una soluzione «concordata» ma l’uccisione del dissidente getta una luce sinistra su Mohammed bin Salman, il giovane leader che doveva fare del Regno un esempio di modernizzazione e apertura in tutto il Medio Oriente. Il caso ha subito una brusca accelerazione dopo la telefonata fra il presidente americano Donald Trump e re Salman, domenica sera. Nella tarda serata di lunedì Washington e Riad hanno fatto filtrare voci che le autorità saudite erano sul punto di ammettere l’uccisione del giornalista nel consolato di Istanbul, seppur in un «interrogatorio finito male» e in una operazione tenuta all’oscuro dei «massimi vertici» del Regno.
Mohammed bin Salman tra i due suoi nemici: l'ayatollah Khamenei e Erdogan
Una versione concordata fra Turchia, Stati Uniti e Arabia Saudita per uscire dall’impasse. Ieri è arrivato a Riad il segretario di Stato Mike Pompeo, per incontrare re Salman e il principe ereditario. In parallelo gli investigatori turchi hanno condotto due ispezioni, la seconda ieri pomeriggio sotto la supervisione del procuratore capo di Istanbul Hasan Yilmaz, e rivelato di aver trovato «prove che Jamal Khashoggi è stato ucciso all’interno del consolato e fatto a pezzi dall’esperto di autopisie Salah Al Tabiqi, in 7 minuti, mentre ascoltava musica, ci sono registrazioni».
A questo punto pagheranno i 15 agenti del commando, già sotto inchiesta in Arabia Saudita, e forse il console, richiamato ieri a Riad. Trump e re Salman copriranno il principe ma il caso ha rotto l’incanto mediatico con l’Occidente e portato alla luce un curriculum sul rispetto dei diritti umani molto preoccupante.
La trappola in cui è stato attirato Khashoggi non è una novità e i casi si sono moltiplicati dal 2015. Oppositori catturati, interrogati, torturati, e poi scomparsi, in una sorta di «rendition» alla saudita. Un precedente, del 2003, ha come vittima un importante esponente della famiglia reale, Sultan bin Turki bin Abdulaziz, nipote di Re Fahd ma critico con il sovrano. Il principe viene invitato alla residenza di Ginevra del figlio preferito del monarca, Abdulaziz bin Fahd, che gli chiede di tornare in patria. Bin Turki rifiuta ma di colpo fa irruzione nella villa un commando che lo immobilizza, lo addormenta con una iniezione nel collo e lo porta nascosto all’aeroporto, dove un aereo privato lo riconduce a Riad. A differenza di Khashoggi ne è uscito vivo, e in seguito ha raccontato lui stesso la sua disavventura.
Il principe Turki bin Bandar aveva invece trovato rifugio in Francia nel 2012. Uomo potente, legato ai servizi di sicurezza, cade in disgrazia per una banale lite riguardo l’eredità dei beni di famiglia. Dopo la nomina di Mohammed bin Salman principe ereditario, nel maggio del 2015, comincia a postare video critici su re Salman, che chiedono la sua rimozione. È troppo. I servizi lo mettono sotto controllo. Prima riceve telefonate amichevoli e offerte di tornare in patria. Ma Turki non si fida e replica con durezza, «dovrei tornare dopo che mi avete chiamato figlio di puttana e minacciato di morte?». Allora scatta il piano B. Durante un viaggio in Marocco viene catturato con l’appoggio logistico delle autorità marocchine. Si sa solo che è stato riportato in Arabia Saudita. Prima di scomparire lascia una lettera a un amico: «Se la leggerai vuol dire che sono stato ucciso o rapito».
La trappola italiana
Ma il caso più clamoroso di «rendition» è quello del principe Saud bin Saif al-Nasr. Nel settembre del 2015, dopo che aveva appoggiato pubblicamente una richiesta di rimozione del sovrano, viene attirato in una trappola. Una compagnia russo-italiana lo invita a un incontro a Roma per discutere dell’apertura di una filiale nel Golfo e invia un aereo privato all’aeroporto di Milano per condurlo nella capitale. Il giovane Al-Nasr non sospetta di nulla ma è tutto organizzato dai servizi. Il principe viene riportato in patria e da allora non si sa più nulla. Il suo destino, come ha commentato un altro principe dissidente Khaled bin Farhan è «marcire in una prigione sotterranea». Arresti ed esecuzioni si sono moltiplicati da quando Bin Salman è principe ereditario. Almeno quattromila oppositori, spesso con l’accusa di terrorismo, sono stati incarcerati, compresa l’attivista Loujain al-Hathloul. E dal maggio 2015 una media di 16 persone al mese ha subito la condanna a morte. Quest’anno, denuncia Amnesty International, sarà record, con oltre 200 esecuzioni.
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