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Shalom Rassegna Stampa
16.10.2018 I profughi siriani accolti e curati in Israele
Analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: Shalom
Data: 16 ottobre 2018
Pagina: 20
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Storie di profughi siriani accolti in Israele»
Riprendiamo da SHALOM settembre-ottobre 2018, a pag. 20 con il titolo "Storie di profughi siriani accolti in Israele" l'analisi di Fiamma Nirenstein.

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Fiamma Nirenstein

Lungo le alture del Golan il vento soffia furiosamente su una situazione che può prendere fuoco da un momento all’altro. L’incendio che ne deriverebbe può portare a una guerra sul fronte siriano, stavolta con attori internazionali: l’Iran, la Russia, le milizie degli Hezbollah L’ultima offensiva di Bashar Assad per scalzare dal sud della Siria i gruppi ribelli composti sia dalla opposizione democratica che da gruppi estremisti fino all’Isis, ha le solite caratteristiche di spietato attacco a tutta la popolazione civile fino alla città di Daraa, grosso modo nel punto di incontro fra il confine Israeliano e quello Giordano con la Siria.

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La prima assistenza prestata da un medico israeliano a un profugo siriano ferito

Centinaia di migliaia di persone, si dice 600mila, sono in fuga. I profughi in movimento, uomini donne e tanti bambini si accalcano oramai soprattutto sul confine israeliano: quello giordano è diventato impraticabile, il re Abdullah ha consentito l’ingresso di un milione di siriani nei sei anni passati (siamo al settimo anno di conflitto siriano) e non intende ammetterne altri. Israele naturalmente non ha nessuna possibilità di ospitare profughi arabi piccolo com’è e tuttora in stato di guerra con la Siria, la cui popolazione è stata cresciuta in un clima di furioso antisemitismo. Ma vuole e può aiutarne la gente in stato di bisogno, e lo fa con una passione e con una larghezza che ancora restano, per evidenti motivi di pregiudizio, sconosciuti alla gran parte del mondo. Ma basta andare a vedere quello che accade lungo il confine del Golan e in tutto il Nord del Paese, specie in Galilea a Naharia dove gli ospedali sono mobilitati nella cura dei feriti e dei malati che vi vengono trasportati, rilevati nottetempo dai soldati israeliani che rischiano la vita per salvarli, per rendersi conto di trovarsi in presenza di qualcosa di inconsueto e straordinario, che solo la pietà e il senso di fratellanza di cui il popolo ebraico deve andare fiero nei millenni possono suggerire. Si chiama "Operazione Buon Vicino", il padre ne è un alto ufficiale dell’esercito, il colonnello Marco Moreno che ci racconta come sette anni fa l’operazione fu iniziata in termini di scambio, e con molta cautela: "Ci rivolgemmo agli uomini di là dal confine, sapevamo che milizie pericolose si aggiravano presso il Golan, e proponemmo una specie di trattato non scritto di non aggressione, loro avrebbero trattenuto i terroristi, noi avremmo fornito tutto l’aiuto umanitario possibile. Ed è andata così bene che quello che era conveniente è invece diventato, per noi, molto bello, molto significativo. Loro avevano all’inizio paura di noi, noi ci andavamo cauti: poi è nata una fiducia per cui essi si affidano completamente alle nostre cure in caso di bisogno drammatico, vengono con fiducia nei nostri ospedali finché non li restituiamo alla loro casa guariti: intanto le famiglie, le donne, i bambini che stanno di là dal recinto ricevono tonnellate di aiuti. Cibo, vestiti, tende, generatori, acqua, medicine. E tanti giocattoli per i bambini. Un ragazzino che è arrivato ferito per la seconda volta da una granata quando si è sentito dire "non devi giocare con le granate" ha risposto "dici bene tu, i tuoi figli hanno tanti giocattoli. Noi giochiamo con quello che abbiamo". Tutti nel Golan si sono mobilitati per aiutare i profughi, mentre sentono gli scoppi in lontananza: 32 cittadine e kibbutz si sono riuniti al Consiglio Regionale e hanno messo in piedi un grande movimento di raccolta di coperte, cibo non deteriorabile, vestiti e balocchi. Un post su Facebook dice "I balocchi e le buste di beni necessari verranno donati a quei bambini che attraversano un periodo tanto difficile della loro vita". "Facciamo del nostro meglio" ci ha detto a Nahariya il chirurgo Eyal Sela "ma quando diciamo ai bambini siriani ’cosa farai da grande’, loro ti guardano un pò beffardi e ti chiedono se davvero penso che ’saranno grandi’". Al centro medico della Galilea Occidentale, nell’ospedale di Nahariya, si fanno le operazioni più difficili: ho visto miracoli che non credevo possibili.

I chirurghi quando le ambulanze o gli elicotteri portano i feriti nella notte, devono aspettarsi il peggio. Ho visto dalle foto che mi sono state mostrate persone che non avevano più la faccia, il naso, il mento, la bocca, le ossa della mandibola, per non parlare di quanti sono arrivati ciechi, monchi, zoppi, ormai senza arti, piedi e mani. E ho visto sulle foto mostratemi da Sela i vari processi di incredibile ricostruzione, le più spericolate operazioni alla testa, col viso su cui vengono innestate ossa, e su di esse tesi pezzi di pelle gonfiati per estenderli come palloncini. Alla fine si vede il risultato: c’è di nuovo, un naso, un mento, una mascella, delle labbra, la pelle. C’è chi resta per anni, a volte viene mandato su e giù dentro il confine per vedere la famiglia e torna per un ennesimo trapianto. Uno di loro, Hani, che ha moglie e due figli piccoli, è un ragazzo di una trentina d’anni, ha un occhio ormai cieco, ma ha un buon aspetto, la testa è stata risistemata, ha un viso contento dopo tanto patire. Racconta come ferito quasi mortalmente a Ghoutta due anni fa gli chiesero se volesse essere portato dagli israeliani, si agitò incerto, gli spiegarono che erano gli unici che lo potevano aiutare, lo buttarono su un cavallo che con tre ore di viaggio lo portarono al confine. Là i soldati lo mise su un’ambulanza. I siriani sanno solo cose orribili degli israeliani, così gli insegnano ovunque: "Ma si svegliano all’ospedale" dice Sela "sono spaventati, e subito si accorgono che i medici per metà sono arabi, e così gli infermieri e anche i pazienti. Dopo poco si affidano completamente, capiscono chi siamo veramente, e io mentre li opero penso che si avvera in noi quello che dice Maimonide: "Che io non possa vedere nel mio paziente altro che un essere umano mio compagno di strada che soffre". E poi mi dico, egoisticamente, che desidero che quando torna a casa dica la verità su Israele". E certamente sia pure a basa voce, perché è molto pericoloso altrimenti (la richiesta ai giornalisti è di non usare mai l’immagine o il nome vero dei ricoverati) qualcosa di buono uscirà da questo sforzo di un Paese tanto piccolo e affaticato come Israele. Un altro ragazzo,. Nawras non ha più le mani nè un occhio: 22 anni, è stanco e spaurito, si trova all’ospedale solo da due settimane, ha ormai delle protesi al posto delle mani, chissà che sorte lo aspetta quando tornerà di là dal confine. Questo popolo disperso spera ormai, paradossalmente solo in Israele. Vogliono restare a casa loro, in Siria, non desiderano restare in Israele forse anche perché sanno che non è possibile, ma come dice il cinquantenne Musa Abu al Bara’a da una delle tende che vediamo a un paio di centinaio di metri di distanza mentre di quando in quando si odono degli scoppi, dice che solo Israele ha a cuore la vita umana e i diritti civili. Musa spera che Assad venga allontanano, ha anche molta preoccupazione per l’avanzare degli iraniani e degli hezbollah. Questo è un elemento primario nella paura della gente che fugge. Gli stranieri sciiti che vogliono, dicono, la morte di tutti i sunniti. E quindi Musa chiede che Israele vada all’Onu e imponga una zona demilitarizzata lungo il confine in cui i profughi siano salvati e accuditi in pace. Ma si è mai visto che l’ONU ascolti Israele? Eppure la sua enorme generosità in questa difficile circostanza dovrebbe creare il più sacro dei diritti.

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