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La Stampa - La Repubblica Rassegna Stampa
05.10.2018 Le dichiarazioni del capo di Hamas e i giornalisti compiacenti
I commenti omissivi e scorretti di Davide Lerner, Vincenzo Nigro, Gigi Riva, l'intervista di Francesca Borri a Yahya Sinwar

Testata:La Stampa - La Repubblica
Autore: Davide Lerner - Francesca Borri - Vincenzo Nigro - Gigi Riva
Titolo: «Il capo di Hamas apre a una tregua: 'Non voglio più guerre con Israele' - Basta guerre, è ora di cambiare - Ma il negoziato su Gaza è bloccato e Israele rafforza l’esercito al confine - La mossa del falco di Hamas»

Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 05/10/2018, a pag. 15, con il titolo "Il capo di Hamas apre a una tregua: 'Non voglio più guerre con Israele' ", il commento di Davide Lerner; dalla REPUBBLICA, a pag. 12, 13, 35, l'intervista di Francesca Borri dal titolo "Basta guerre, è ora di cambiare", il commento di Vincenzo Nigro dal titolo "Ma il negoziato su Gaza è bloccato e Israele rafforza l’esercito al confine", il commento di Gigi Riva dal titolo "La mossa del falco di Hamas".

Davide Lerner ritiene le parole del capo di Hamas Yahya Sinwar un sintomo di "inusitata moderazione". Lerner dimentica però di ricordare la natura del movimento terroristico di Hamas, ben chiara al primo sguardo dello statuto, che si pone l'obiettivo della distruzione di Israele e della guerra contro gli ebrei (non solo quelli israeliani).  Pur ricordando alcune attività criminali  di Hamas, per esempio il rapimento di soldati israeliani,  il commento di Lerner è quindi omissivo.

Fa peggio la Repubblica, che pubblica l'intera intervista a Sinwar, in cui Francesca Borri ha un tono compiacente e non fa domande scomode al terrorista. Quando Sinwar parla di "occupazione" israeliana a Gaza - una menzogna, poiché l'ultimo israeliano ha lasciato Gaza nel 2005 - la giornalista non ha nulla da obiettare, così come tace quando Sinwar definisce Hamas una "organizzazione per la liberazione della Palestina". Borri fa bene a chiedere conto dei soldi utilizzati da Hamas per costruire tunnel e comprare armi invece che impiegarli in modo utile per la popolazione, ma non basta per rendere seria l'intera intervista.

Vincenzo Nigro e Gigi Riva, commentando l'intervista, valorizzano eccessivamente la versione di Sinwar e scrivono esplicitamente di "assedio" di Israele a Gaza. Nigro mette perfino tra virgolette la parola "terrorismo" riferita a Hamas, come se fosse un'opinione e non un fatto evidente, virgolette che riempiono tutto il pezzo di Riva quando riporta la versione israeliana.

LA STAMPA - Davide Lerner: "Il capo di Hamas apre a una tregua: 'Non voglio più guerre con Israele' "

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Davide Lerner

Il leader di Hamas nella striscia di Gaza, Yahya Sinwar, ha rilasciato un’intervista senza precedenti ad un quotidiano israeliano dicendosi favorevole ad un cessate il fuoco di lunga durata con Israele. Sul fronte, però, il livello di allerta dell’esercito israeliano continua ad aumentare. «Non voglio più guerre con Israele», ha detto Sinwar. «Non è nel nostro interesse confrontarci con una potenza nucleare, non potremmo vincere, e una nuova guerra non è nemmeno nell’interesse di Netanyahu. La prossima sarebbe la quarta operazione su Gaza e non possono permettersi di concluderla come la terza, che già si è conclusa come la seconda, che già si è conclusa come la prima. Dovrebbero rioccupare Gaza (per impedire il lancio di missili verso Israele, ndr.). E non penso che Netanyahu, che sta tentando in tutti i modi di liberarsi dei palestinesi della Cisgiordania per preservare una maggioranza ebraica, desideri annettere un territorio con altri due milioni di arabi». Di regola, i politici palestinesi non concedono interviste ai media israeliani, temendo che la «normalizzazione» dei rapporti rischi di rafforzare lo status quo. Il quotidiano Yedioth Ahronoth, il giornale a pagamento più diffuso del Paese, è stato infatti bersaglio di un comunicato polemico di Hamas dopo la pubblicazione. «La giornalista ha detto di essere di “Repubblica” e del “Guardian”, non avremmo rilasciato a israeliani», ha accusato il movimento islamista, che però non ha smentito i contenuti dell’intervista, se non lamentando che «alcune affermazioni sono state distorte». Il tono del leader di Hamas, Yahya Sinwar, stupisce per l’inusitata moderazione, per uno che ha militato per una vita nelle frange armate di un’organizzazione votata alla distruzione d’Israele: «Ci troviamo di fronte a un’opportunità storica per cambiare le cose», dice, «ma il cessate il fuoco deve voler dire non solo nessun attacco da una parte e dall’altra, ma anche la fine dello stato d’assedio su Gaza, perché l’assedio è una guerra combattuta con altri mezzi», ha detto Sinwar a Yedioth Ahronoth. Israele mantiene un controllo fermissimo delle frontiere di Gaza, sia di terra che marittime, limitando radicalmente la possibilità di transito di merci e di persone.

Israele accusa Hamas di ignorare le disastrose condizioni umanitarie della Striscia, per investire invece in tunnel sotterranei progettati per aggredire Israele: proprio attraverso uno di questi tunnel, Hamas rapì nel 2006 il soldato israeliano Gilad Shalit, che fu poi liberato in cambio di oltre mille prigionieri palestinesi, fra cui lo stesso Sinwar, che è stato oltre vent’anni in carcere, in quanto mandante di un’operazione terroristica. Ma per Sinwar i tunnel sono fondamentali, soprattutto perché garantiscono l’approvvigionamento di beni di prima necessità: «Per fortuna ci sono i tunnel: a volte gli israeliani non fanno passare per i valichi neppure il latte, non saremmo sopravvissuti altrimenti», dice. Se un cessate il fuoco tenesse, sostiene Sinwar, forse Gaza potrebbe diventare come Singapore e Dubai. «Se solo per un momento ci fermassimo e pensassimo a Gaza come era una volta – lei hai mai visto delle foto degli Anni Cinquanta? Quando d’estate tutti venivano in vacanza a Gaza?», dice Sinwar, riflettendo sullo scenario (improbabile) che un cessate il fuoco possa durare a oltranza. «Ogni sera i nostri ragazzi guardano il mare e si chiedono come sia il mondo al di là delle onde, mi spezza il cuore», racconta. Nel colloquio, Sinwar dice anche che il ritiro israeliano da Gaza nel 2005 fu solo un passaggio dall’occupazione dall’interno all’occupazione dai confini, che Oslo è stata una menzogna per compromettere le chances di creare uno stato di Palestina, che gli aquiloni infuocati che da Gaza vengono lanciati verso Israele non sono un’arma ma un messaggio: «Siete più forti ma non vincerete mai».

LA REPUBBLICA - Francesca Borri: "Basta guerre, è ora di cambiare"

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Francesca Borri

Mentre gli scontri al confine di Gaza si intensificano, il leader di Hamas, Yahya Sinwar, in una rara intervista con la stampa internazionale lancia un messaggio a Israele. «C’è una reale opportunità per il cambiamento. La guerra non è nel nostro interesse. Ma nella situazione attuale un’esplosione è inevitabile».

Non incontra spesso la stampa, ma è a capo di Hamas da più di un anno. Perché parla ora? «Perché è adesso che c’è un’opportunità di cambiamento. L’opportunità di avere infine sicurezza e stabilità».

Un’opportunità? Adesso? «Adesso. Sì».

La cosa più probabile, a Gaza, sembra una nuova guerra. In quest’ultima ondata di proteste si sono avuti quasi 200 morti. «Mentre dall’altra parte un morto solo. Intanto direi che ‘guerra’ è termine fuorviante: non è che a Gaza a un certo punto c’è una guerra e gli altri giorni c’è la pace. Siamo sempre sotto occupazione: l’aggressione è quotidiana. Varia di intensità. Tutto qui. E comunque la verità è che una nuova guerra non è nell’interesse di nessuno. Di certo, non è nel nostro: chi ha voglia di fronteggiare una potenza nucleare con due fionde? E però, se è vero che non possiamo vincere, per Netanyahu vincere sarebbe anche peggio che perdere. Perché questa sarebbe la quarta guerra. Non può concludersi come la terza, che già si è conclusa come la seconda, che già si è conclusa come la prima. Dovrebbero riconquistare Gaza. E non penso che Netanyahu, che sta già tentando di tutto per sbarazzarsi dei palestinesi della West Bank, e mantenere una maggioranza ebraica, desideri altri due milioni di arabi. No. Con la guerra non si ottiene niente».

Suona un po’ strano, detto da uno che viene dall’ala militare di Hamas. «Non sono a capo di una milizia. Vengo da Hamas e basta. Sono a capo di una cosa decisamente più complessa: un movimento di liberazione nazionale. E il mio primo obbligo è agire nell’interesse del mio popolo: difenderlo, e difendere il suo diritto a libertà e indipendenza. Lei è una corrispondente di guerra. Ha voglia di guerra?»

No. «E allora perché dovrei averne io? Chi conosce la guerra, non ha voglia di guerra».

Ma lei ha combattuto tutta la vita. «Infatti non sto dicendo che non combatterò più. Sto dicendo che non voglio più guerre. Voglio la fine dell’assedio».

I confini di Gaza sono più o meno chiusi da 11 anni. Non c’è più neppure l’acqua. Com’è vivere qui? «E come crede che sia? Il 55 per cento della popolazione ha meno di 15 anni. Non stiamo parlando di terroristi: stiamo parlando di bambini. Non hanno nessuna tessera di partito. Hanno paura. Paura e basta. Voglio che siano liberi».

L’80 per cento della popolazione vive di aiuti umanitari, ma Hamas in questi anni ha trovato le risorse per costruire i suoi tunnel. «E per fortuna. Altrimenti saremmo morti tutti. È iniziato l’assedio, è iniziata la crisi e per sopravvivere a noi non è rimasto che costruire i tunnel. In certi momenti qui non entrava neanche il latte».

Non pensa di avere delle responsabilità? «La responsabilità è di chi ha chiuso i confini, non di chi ha provato a riaprirli. La mia responsabilità è cooperare con chiunque possa aiutarci e mi riferisco soprattutto alla comunità internazionale».

E invece che armi, allora, non potevate comprare il latte? «Se siamo ancora vivi, evidentemente l’abbiamo comprato. Il latte e molto altro. Cibo, medicine. Siamo 2 milioni. I tunnel sono soltanto in minima parte per la resistenza e perché altrimenti non muori di fame, è vero, ma muori bombardato. E per la resistenza Hamas usa fondi propri. Non pubblici».

Quindi Hamas ora è dell’idea di un cessate il fuoco con Israele. Che cosa intende per cessate il fuoco? «Un cessate il fuoco. Calma assoluta».

Calma in cambio di calma? «No. Calma in cambio di calma e della fine dell’assedio. L’assedio non è calma».

Calma per quanto tempo? «Quello che conta realmente è che cosa succede intanto sul terreno. Perché se il cessate il fuoco significa che non veniamo bombardati, sì, ma continuiamo a non avere acqua, elettricità, niente, continuiamo a vivere sotto assedio, non ha senso. Perché l’assedio è una forma di guerra. E tra l’altro è un crimine per il diritto internazionale. Non c’è cessate il fuoco sotto assedio. Ma se Gaza torna normale, invece, se arrivano non soltanto aiuti umanitari, ma investimenti, imprese, sviluppo, se iniziamo a percepire una differenza, allora possiamo andare avanti. E quello che so è che Hamas si impegnerà al suo meglio».

Hamas, durante il cessate il fuoco, terrebbe le sue armi? O accettereste una protezione internazionale, i caschi blu? «Tipo Srebrenica?»

Deduco che sia un no. «Deduce bene».

Molti pensano a Hamas e non pensano alle mense. Pensano alla seconda Intifada. Agli attentati suicidi. Per gli israeliani lei è un terrorista. «Che è quello che loro sono per me».

Sembra un ottimo inizio, per il cessate il fuoco... «E che dovrei dirle? Abbiamo colpito civili? Hanno colpito civili. Hanno sofferto? Abbiamo sofferto. Mi racconti di un qualsiasi loro morto e io le racconterò di un nostro morto. Di dieci nostri morti».

Che cosa pensa del piano di pace di Trump? Anche se non è molto chiaro di che cosa si tratti. «Si tratta dell’eliminazione di ogni nostra prospettiva di libertà e di indipendenza. Non c’è sovranità, non c’è Gerusalemme. Non c’è il diritto al ritorno... Mi è più semplice dire quello che c’è: il nostro no. E non soltanto di Hamas. Su questo, siamo tutti uniti. No».

Dovesse riassumermi tutto questo in una frase, in una sola frase, qual è il messaggio che vorrebbe restasse più impresso ai lettori? «È tempo di cambiare. Tempo di finirla con questo assedio. E cambiare».

LA REPUBBLICA - Vincenzo Nigro: "Ma il negoziato su Gaza è bloccato e Israele rafforza l’esercito al confine"

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Vincenzo Nigro

L’Egitto tenta una difficile mediazione. E resta da risolvere il nodo del rientro dell’Anp nella Striscia Nelle ultime settimane di questa che verrà ricordata come “ l’estate degli aquiloni”, una tregua, una “ hudna” fra Israele e Hamas a Gaza era sembrata finalmente a portata di mano. Non è così, e forse non sarà così per molto tempo ancora. Ieri il portavoce dell’esercito israeliano ha detto che il capo di stato maggiore Gadi Eizenkot ha preso una decisione non più rinviabile: l’esercito schiererà altre truppe ai confini di Gaza. Per fermare gli aquiloni che incendiano i campi, per fermare le incursioni, i razzi, i nuovi possibili attentati. « Bisogna sventare operazioni terroristiche e impedire infiltrazioni in Israele dall’area della barriera di sicurezza, l’organizzazione terroristica di Hamas ha la responsabilità per tutto ciò che accade nella Striscia », dice l’esercito di Israele. Da maggio Hamas ha messo il suo cappello politico sulla “ Grande Marcia del Ritorno”: migliaia di cittadini di Gaza si sono affollati ogni venerdì alla barriera con Israele per protestare, incendiare copertoni, lanciare aquiloni esplosivi ma anche razzi e bombe verso Israele. Insomma per mantenere alta la pressione su Israele che tiene sotto assedio la Striscia. Per tutta l’estate questo negoziato segreto ma raccontato di continuo sui giornali è andato avanti fra Israele e Hamas con la mediazione dei servizi di sicurezza egiziani e del Qatar. Lo scopo di Hamas è quello di riuscire ad avere da Israele l’ossigeno necessario per governare la Striscia, far uscire la sua popolazione dalle condizioni di emergenza umanitaria in cui Gaza vive ormai da mesi. Israele ha interesse a una tregua per indurre Hamas a sospendere lo stillicidio di manifestazioni, il lancio di razzi e aquiloni incendiari che rendono furiosa la popolazione israeliana nel Sud, furiosa innanzitutto con il governo di Gerusalemme. Israele non ha nessun interesse a riconoscere alcunché ad Hamas, che continua a classificare semplicemente come “movimento terroristico”. Non vuole cedere o concedere nulla a un movimento che utilizzando la lotta armata oltre che l’azione politica potrebbe sbandierare un allentamento della pressione su Gaza come una vittoria. Ma un negoziato mediato dall’Egitto che portasse appunto a una “hudna”, una tregua lunga il più possibile, è un male minore rispetto a una situazione di continua tensione ai confini. Ieri dopo le anticipazioni dell’intervista di Yahya Sinwar in cui il capo di Hamas conferma l’interesse a una tregua, il premier Bibi Netanyahu ha rivolto la sua attenzione a Mahmoud Abbas. Oltre all’assedio militare di Israele, Hamas nella Striscia è colpita dalle sanzioni politiche ed economiche dell’Autorità Palestinese. Dopo aver espulso Fatah con la violenza dalla Striscia, Hamas adesso tratta con Abu Mazen. Ma l’Anp non riesce ancora a rientrare a Gaza, e per questo non vuole che Hamas abbia successo nel negoziato con Israele. Riconoscendo la supremazia politica dell’Autorità Palestinese anche nella Striscia, Hamas riuscirebbe a ottenere forniture di acqua, elettricità, di medicine e di altri beni di prima necessità che oggi Israele, l’Egitto e la Anp fanno arrivare con il contagocce. Un blocco economico che ha reso le condizioni di vita nella Striscia insopportabili. Ma evidentemente Hamas non ha ancora intenzione di negoziare fino in fondo una condivisione del potere politico con l’Anp. Non ha intenzione di riconoscere nulla, neppure il diritto all’esistenza del nemico Israele. E l’assedio continua.

LA REPUBBLICA - Gigi Riva: "La mossa del falco di Hamas"

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Gigi Riva

Un cessate il fuoco, hudna in arabo, non è la pace, tantomeno il riconoscimento dello Stato ebraico. E non è la prima volta che Hamas lo propone ad Israele. La novità è che stavolta la richiesta, formulata in un’intervista a Repubblica e al quotidiano di Tel Aviv Yedioth Ahronoth, è di un falco, un duro fra i duri come Yahya Sinwar, 56 anni, ora capo politico del movimento islamista ma in passato uno dei leader militari delle brigate Izz ad- Din al- Qassam, il braccio violento, intransigente, da sempre refrattario a qualunque trattativa con " l’entità sionista". Nessuna reazione ufficiale del governo di Benjamin Netanyahu il cui esercito tuttavia, nelle stesse ore, ha deciso di rafforzare " su larga scala" la propria presenza attorno a Gaza per " contrastare il terrorismo e prevenire infiltrazioni lungo il confine con la Striscia". Segnali divergenti, tutti da decrittare. Yahya Sinwar si è risolto al passo proprio mentre si rafforzano i venti di una nuova possibile guerra, sarebbe la quarta a Gaza, che una popolazione stremata dall’assedio non potrebbe sopportare. La mossa presenta dunque elementi tattici frutto della disperazione e in contrasto con una biografia che ha posto il suo autore tra i massimi fautori della resistenza terroristica. Nato nel campo profughi di Khan Yunis ( dove il fratello Mohammed continua ad essere il comandante delle brigate), Sinwar fu arrestato una prima volta per " attività sovversiva" quando non aveva ancora vent’anni. Fondatore dell’organizzazione incaricata di individuare le spie israeliane all’interno del movimento palestinese, nel 1989 fu condannato a quattro ergastoli per l’uccisione di due militari. Nel 2011 fu rilasciato nello scambio di prigionieri che ha portato alla liberazione del soldato Gilad Shalit. La sua elezione, nel febbraio del 2017, al vertice di Hamas al posto di Ismail Haniyeh è stata interpretata come una svolta estremista. È talvolta vero che la carica cambia le persone e non bisogna dimenticare che una così prolungata esperienza in prigione, un rapporto così stretto e quotidiano col nemico, possono ridurre i più intransigenti a dialoganti: gli israeliani hanno appreso molto, in questo senso, dai britannici che ai tempi dell’impero erano soliti trasformare i prigionieri in interlocutori. Certo Sinwar deve aver avvertito il peso ineludibile della responsabilità nei confronti dei due milioni di abitanti della Striscia. I quali, a 12 anni dalla vittoria nelle urne di Hamas, hanno visto via via peggiorare le loro condizioni di vita, dentro un fazzoletto di terra ermeticamente chiuso, isolati dal mondo, con scarso accesso all’acqua, all’elettricità, al gas. E hanno dovuto scontare, in certi periodi, la carenza di cibo. Sotto la direzione dell’ex ergastolano, anche i venerdì di lotta della " marcia del ritorno" a 70 anni dalla nakba, la " catastrofe", l’esodo del 1948 dopo la sconfitta militare e la nascita dello Stato d’Israele, si sono trasformati in una carneficina la cui contabilità ammonta ad oggi a 193 morti e 21mila feriti. Dunque c’era bisogno di una svolta, per riconquistare un consenso assottigliato dai rovesci, dopo avere a più riprese sperimentato che la strategia della contrapposizione frontale è totalmente sterile se davanti si ha uno degli eserciti più forti, attrezzati e tecnologicamente avanzati del mondo. Sinwar chiede allora una hudna, una tregua « ma non sto dicendo che non combatterò più, sto dicendo che non voglio più guerre » . Una guerra aggiunge « non è nell’interesse di nessuno » . Si impegna a rispettare un eventuale cessate il fuoco totale, niente missili rudimentali qassam, niente aquiloni incendiari. In cambio, la tranquillità di poter progettare una rinascita economica che permetta di uscire dall’attuale miseria. Servirebbe per rivaleggiare con l’avversario interno, il movimento secolare Fatah del presidente Abu Mazen, peraltro bollato di recente come " illegale", che nell’altro corno palestinese, la Cisgiordania da lui controllata, sta raccogliendo i frutti di un relativo benessere. Una rottura netta tra le due anime dei palestinesi determinata anche dalle voci per le quali il presidente starebbe per bloccare il trasferimento dei fondi annuali dell’Anp a Gaza, 96 milioni di dollari. Uscito per anni dal cono di luce dell’informazione perché più stringente era la minaccia dello Stato islamico, l’eterno conflitto israelo- palestinese torna sotto i riflettori e ripropone i suoi irrisolti problemi. Le divisioni nel campo arabo favoriscono senza dubbio il governo di Gerusalemme e la politica dello status quo. Sta ora a Benjamin Netanyahu andare a vedere, come in una partita di poker, se l’offerta di Yahya Sinwar è un bluff per riprendere fiato e riorganizzare i suoi miliziani in vista di una nuova sfida. Per ora la sua risposta è un eloquente silenzio.

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