Daniele Raineri
A metà agosto l’Amministrazione Trump ha nominato un inviato speciale per la Siria, James Jeffrey, di 72 anni, un ex militare con una carriera diplomatica lunga 35 anni durante la quale è stato ambasciatore in Turchia e in Iraq. Jeffrey parla in modo molto diretto e pochi giorni fa ha detto che l’America prepara una “strategia dell’isolamento contro il presidente siriano Bashar el Assad”. Washington vuole forzare il rais siriano a cambiare la Costituzione del suo paese prima delle prossime elezioni in modo da aprire il sistema politico e così evitare le solite “elezioni” farsa che Assad vince con un voto popolare che sfiora il 99 per cento e l’applauso del suo rivale di paglia di turno. Un’opposizione vera, partiti veri, candidati veri, regole vere, una chance vera di eleggere qualcuno che non sia Bashar el Assad o perlomeno la possibilità di creare un contropotere.
Donald Trump
In Siria chi prova a chiedere che il Sistema sia riformato finisce nelle prigioni della polizia politica, adesso l’America ne ha fatto un obiettivo dichiarato della sua politica estera – almeno per i prossimi due anni di mandato dell’Amministrazione Trump. “Se il regime non lo farà – dice Jeffrey – allora lo colpiremo come facevamo con l’Iran prima del 2015 con sanzioni internazionali molto dure. E anche se il Consiglio di sicurezza dell’Onu (dove siede la Russia con potere di veto) non approvasse le sanzioni, allora lo colpiremo assieme all’Unione europea e ai nostri alleati asiatici. Faremo del nostro meglio per rendere la vita il più miserabile possibile per quel cadavere strisciante di regime e faremo in modo che i russi e gli iraniani, che hanno fatto questo casino, lascino il campo”. L’inviato speciale Jeffrey ha una visione chiara di quello che succede in Siria e a luglio quando il presidente americano Donald Trump e il presidente russo Vladimir Putin si erano incontrati a Helsinki aveva detto: “Putin ha intenzione di compromettere l’intero sistema di sicurezza statunitense in medio oriente e Trump continua a lasciarglielo fare, come faceva Obama ma in modi diversi”. Si riferiva al fatto che la Siria è diventata un territorio dove le forze militari dell’Iran e della Russia possono fare quello che vogliono e che questa è una nuova realtà molto minacciosa per gli alleati storici dell’America in quell’area, a partire da Israele. Il fatto che un mese dopo le critiche l’Amministrazione abbia nominato Jeffrey alla guida di un dossier cruciale come la Siria indica che in questa fase ha bisogno di una testa che parla chiaro.
Bashar al Assad
E infatti adesso siamo passati a “il regime siriano è un cadavere strisciante e deve cambiare la Costituzione” – parole che non sentirete mai da un qualsiasi altro diplomatico occidentale. L’annuncio di Jeffrey a proposito di una strategia dell’isolamento per punire Bashar el Assad e costringerlo a mollare la presa sulla presidenza colpisce molto perché arriva a scoppio ritardato in una fase cosiddetta di normalizzazione, in cui il resto del mondo ormai cercava di capire cosa fare e come regolarsi dato che il presidente siriano contro ogni previsione fatta nel 2012 è rimasto al suo posto grazie all’intervento del presidente russo Vladimir Putin nella guerra civile. Ci sono aree del paese quasi completamente distrutte e per la ricostruzione c’è bisogno di somme di denaro enormi che i due stati-sponsor di Assad, l’Iran e la Russia, non hanno – anzi, hanno problemi a far quadrare i conti di casa. Sembrava quindi inevitabile che ci sarebbe stato un riavvicinamento progressivo tra il governo Assad e gli altri. Le voci di contatti tra il regime siriano e i governi europei e la Casa Bianca per negoziare il ritorno alla normalità nelle relazioni erano sempre più frequenti – inclusa per esempio la visita discreta del capo della sicurezza siriana, il generale Ali Mamlouk, in una base dell’intelligence italiana a sud di Alghero nel febbraio 2017 in violazione delle sanzioni europee. Adesso però l’America ha parlato: tutto questo riavvicinamento non s’ha da fare se il presidente siriano resta al suo posto – o per essere più precisi se continua a tenere chiuso il Sistema (gli arabi usano questa parola: nizam, per indicare l’organizzazione dello stato) con quelle regole da stato di polizia che proteggono la dinastia Assad fin dal golpe fatto da suo padre Hafez nel 1971. E’ interessante: sono le stesse richieste delle folle di manifestanti siriani che nella primavera 2011 scendevano nelle piazze prima che scoppiasse la guerra civile. Pochi giorni prima della dichiarazione di Jeffrey a Reuters il consigliere per la Sicurezza nazionale di Trump, John Bolton, aveva detto che “le truppe americane rimarranno nella regione fino a quando le forze iraniane saranno fuori dai loro confini e questo include anche le loro forze irregolari e le loro milizie”. “Le truppe americane” è un’espressione vaga, ma il consigliere si riferisce soprattutto al corpo di spedizione di duemila soldati americani che in questo momento è sparso in alcune basi della Siria orientale ed è impegnato nelle ultime battute della campagna contro lo Stato islamico (ultime battute nel senso che lo Stato islamico controlla ancora alcune piccole sacche di territorio nel deserto: dopo che le perderà continuerà a esistere come gruppo terrorista per decenni). E quando Bolton dice “forze iraniane, incluse quelle irregolari e le milizie”, si riferisce all’appa - rato gigantesco di gruppi armati creato per volontà del generale iraniano Qassem Suleimani con lo scopo d i allargare il raggio d’azione di Teheran in tutto il medio oriente senza coinvolgere ufficialmente il suo governo e le sue forze armate. Dal Libano, dove c’è Hezbollah, alla Striscia di Gaza fino all’Iraq dove proliferano decine di milizie. Oggi pochi lo ricordano, ma dieci anni fa durante la guerra americana in Iraq il Pentagono considerava i “gruppi iraniani” più efficienti e pericolosi di al Qaida. Bolton è considerato un falco fissato con l’Iran fin da quando faceva parte dell’Ammi - nistrazione Bush con il ruolo di ambasciatore alle Nazioni Unite e adesso, come scrive Foreign Policy, “is living the dream”: non gli potrebbe andare meglio perché si occupa di una linea politica molto ostile a Teheran. E’ una cosa garantita che le sue parole “noi non ci ritireremo finché non lo fanno loro” abbiano fatto saltare sulla sedia i governi che sono coinvolti nelle faccende del medio oriente, anche se non sono state registrate dall’opi - nione pubblica del mondo. E’come se le parole molto bellicose dell’Amministrazione Trump in questa fase fossero pronunciate a frequenze udibili soltanto da un pubblico selezionato. L’inviato Jeffrey non parla di una guerra per far sloggiare gli iraniani, ma di “pressione”. Per esempio, la Siria orientale in questo momento è in mano alle forze curde sponsorizzate dagli americani che negli ultimi tre anni hanno sostenuto il grosso dei combattimenti contro i fanatici dello Stato islamico e per risultato si sono trovati a controllare un pezzo enorme del paese. Fino a pochi mesi fa sembrava che i curdi avrebbero presto trovato un accordo con Assad, un minimo di autonomia e di garanzie di libertà in cambio della restituzione del territorio, ma i negoziati sono saltati perché gli americani non vogliono. Non hanno sostenuto i curdi per tutto questo tempo per poi assistere alla loro integrazione nell’esercito assadista. Se accadesse, dovrebbero chiudere le basi e andarsene e come abbiamo visto non ne hanno intenzione finché ci sono gli iraniani. Inoltre la Siria orientale in mano ai curdi contiene i pozzi di greggio – i pochi del paese. Quale migliore pressione contro il regime, pensano a Washington, che non dargli ancora indietro l’accesso all’energia? Secondo un diplomatico occidentale che tre giorni fa ha parlato al Washington Post in forma anonima, l’Iran ha speso decine di miliardi di dollari in Siria e ha perso in combattimento migliaia di uomini a sostegno del regime di Assad. Se gli Stati Uniti sono intenzionati a mantenere una presenza militare in Siria fino a quando gli iraniani non se ne andranno, ci vorranno “almeno decenni”. Anche a Damasco c’è aria di sfida per quel che riguarda il cambiamento della Costituzione e delle regole. Il motto degli assadisti fin dai primi mesi di guerra civile è “Assad o bruciamo il paese” – cosa che in effetti è successa – non vedono perché cedere ora che il peggio è alle loro spalle. Ci si aspettava quindi che la politica di Trump in Siria fosse – per motivi diversi – la continuazione della politica dell’Amministrazione Obama. Fedele al principio “Don’t do stupid shit”, non fare stupidaggini, Barack Obama aveva depotenziato sempre di più la sua posizione a proposito della guerra civile in Siria. Nella primavera 2011 le centinaia di migliaia di siriani che riempivano le piazze pacificamente per chiedere una riforma del sistema politico siriano che da quasi mezzo secolo mantiene al potere la dinastia Assad erano convinte di essere appoggiate dall’America. Obama aveva accettato che il presidente egiziano Hosni Mubarak si dimettesse davanti alle proteste di massa nelle piazze – la diceria vuole che abbia risposto no al sovrano saudita Abdallah che gli chiedeva di appoggiare Mubarak e che il saudita per la rabbia abbia avuto un malore – e aveva mandato gli aerei a bombardare Gheddafi in Libia, e il suo ambasciatore Robert Ford era andato in mezzo ai manifestanti di Hama coperto da lanci di rose, perché non avrebbe dovuto aiutare anche i siriani? Invece Obama aveva poi deciso di limitare al massimo il suo coinvolgimento, fino al grande voltafaccia dell’agosto 2013, quando sconfessò una dichiarazione che aveva fatto l’anno prima a proposito dell’uso di armi chimiche come “linea rossa che Assad non deve valicare se non vuole causare l’intervento americano”. L’uso di armi chimiche arrivò ma l’Amministrazione Obama preferì scegliere una soluzione diplomatica. Il presidente puntava a un accordo di pace con l’Iran a proposito del programma di ricerca nucleare e temeva che ogni intervento in Siria avrebbe fatto saltare i negoziati, prima clandestini e poi pubblici, con Teheran. La Casa Bianca di Donald Trump ha invece deciso di fare per quel che riguarda il medio oriente e la Siria una rivoluzione in politica estera. Del resto, se la maggior preoccupazione dell’Amministrazione precedente era preservare intatti i negoziati con gli iraniani per arrivare a un accordo storico, questa Amministrazione l’accordo storico lo ha fatto saltare via quasi subito, quindi non ha più ragione di sentirsi vincolata. E’ una rivoluzione che passa quasi inosservata perché questa Amministrazione è molto scandalosa e naturalmente ci concentriamo tutti su altre notizie e sugli aspetti più teatrali del presidente americano. I racconti di consiglieri economici che rubano lettere dalla scrivania dello Studio Ovale, la deposizione del giudice Kavanaugh e le memorie della pornostar Stormy Daniels che ebbe una relazione con lui – soltanto per citare le news di settembre – sono troppo avvincenti per essere lasciati cadere. Ed è una rivoluzione non soltanto rispetto a Obama, ma anche rispetto al Trump prima maniera della campagna elettorale e di inizio mandato. Nel 2016 era scontato che il candidato Trump guardasse con simpatia al presidente siriano Bashar el Assad perché “elimina terroristi, quindi secondo me bisogna lasciarlo stare” e questo apprezzamento era esteso ad altri altri uomini forti come l’iracheno Saddam Hussein e il libico Muammar Gheddafi. Trump in politica estera era (è ancora, in teoria) un sostenitore forte della dottrina dell’“America first”, l’America viene prima di tutto e questo si traduce in una minore presenza militare all’estero o, come dicono i sostenitori della dottrina, in un minor impegno come poliziotto del mondo. La Siria brucia? Fatti loro, non possiamo occuparci di tutti. Il suo consigliere e ideologo, Steve Bannon, crede molto in questo approccio e quando ad aprile Trump ha deciso di bombardare la Siria dopo avere visto le immagini di bambini soffocati dal cloro lui girava per le stanze della Casa Bianca deciso a fermare tutto: “Se sono le foto che vi impressionano – diceva al resto dello staff – posso portarvene di altrettante impressionanti da altri paesi, bambini del Congo e del Guatemala. Perché non interveniamo anche lì?”. Inoltre Assad è alleato con la Russia del presidente Putin e quindi sembrava scontato che Trump sempre molto debole su quel lato avrebbe lasciato cadere ogni pretesa di esercitare un’influenza su quello che succede in Siria. I suoi fan scrivevano che Trump, al contrario di Hillary, “non era legato ai sauditi e non era un guerrafondaio”. E invece a Bashar el Assad è toccato in sorte di essere il nemico d’elezione del presidente americano, quello che se la storia dell’Amministrazione dovesse scriversi ora ha fatto da unico antagonista e da bersaglio per i missili. Mentre Trump scambia lettere amorose con il leader della Corea del nord, il siriano è diventato “Animal Assad”. Sappiamo grazie al libro di Bob Woodward che per mesi il presidente americano s’è fissato sull’eliminazione fisica del rais siriano e ha continuato a chiedere ai suoi generali come fare. Come la guerra al libero commercio internazionale e l’inimicizia con il clan dei Clinton, sembra una di quei pochi concetti destinati a restare e dominare nella testa di The Donald.
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