NAZIONE/CARLINO/GIORNO - Roberto Giardina: "La canzone più triste di Aznavour, istrione orgoglio degli armeni"
Roberto Giardina
«SMETTERE è come morire, vorrei restare sul palcoscenico fino al mio centesimo compleanno», Charles Aznavour ha quasi realizzato il suo desiderio. E’ morto ieri a 94 anni, a Mouriès, un paesino in Provenza, e si è esibito in teatro fino all'ultimo.
AVEVA cominciato da bambino, cantando nei ristoranti di Parigi, dove era nato in un misero appartamento nel Quartiere Latino. Un figlio d'arte. I suoi genitori erano scappati dall'Armenia per sfuggire al massacro dei turchi durante la Grande Guerra. Il padre era un baritono, nato in Georgia, la madre attrice, nata a Smirne, in Turchia. Il suo vero nome era Chaunourh Varinag Azvourian. Troppo complicato per quel cantante di nove anni che con la sua voce cristallina commuoveva le signore a cena. Il timbro di un usignolo orientale, ma quando crebbe non piacque: la voce divenne aspra, e Charles rimase piccolo e mingherlino, appena un metro e 61. Subito dopo l'ultima guerra, lo scopri nel '46, una cantante ancora più minuscola, Edith Piaf. Divenne il suo amante, lo portò con sé in tournée, prima in Francia, poi negli Stati Uniti, l'inizio di una carriera senza fine. Le prime canzoni, le compose per Edith, canzoni d'amore come tutti i suoi più grandi successi. «Prima comincia l'amore, poi la vita», confidò nell'ultima intervista nel giugno scorso. Si sposò tre volte, ed ha avuto sei figli. Aznavour sapeva cantare in ogni lingua, dal russo all'italiano, perfino in napoletano, dal greco al tedesco. Era la voce del Mediterraneo, e dell'Europa sospesa tra due mondi, l'Occidente e l'Oriente. Canzoni che hanno accompagnato tre generazioni, Devi sapere, La Bohème, o Après l'amour, che divenne in italiano «l'amore è come un giorno», Com'è triste Venezia, Ed io tra di voi, Lei. Gino Paoli, Domenico Modugno, Milva, Iva Zanicchi, cantavano le sue canzoni, e Aznavour traduceva i loro successi in francese. Ha composto oltre 1300 canzoni, e venduto oltre 300 milioni di dischi, e ha girato 160 film, un talento poliedrico. Un cantante da cabaret, e un divo alla Sinatra in grado di stregare il pubblico alla Carnegie Hall di New York o all'Olympia, a Parigi.
A CASA OVUNQUE, e sempre straniero, un esule che non dimenticava la sua patria che conobbe da adulto. Aznavour sentiva di avere una missione, non far dimenticare i suoi armeni. Nel 1995, l'Unesco lo nominò ambasciatore straordinario per l'Armenia, e nel 2004 in occasione dell'ottantesimo compleanno ricevè la medaglia di eroe nazionale della sua patria. Nel 2011, inaugurò a Eriwan una fondazione culturale che porta il suo nome.
A DODICI ANNI girò il primo film, seguirono altre pellicole dimenticate, fino a Les draguers, nel 1959, non un capolavoro, ma una pellicola amata dai ragazzi ribelli degli Anni Cinquanta. Il successo arrivò subito l'anno seguente con Tirez sur le pianiste, di Francois Truffaut. Si stabilì un legame stretto con il regista. «Era innamorato dei miei occhi orientali», spiegava. «Eravamo amici, e devo a lui di essere stato preso sul serio dal cinema... da ragazzo avevo sempre sognato di diventare attore, e non un cantante, ma ero troppo brutto per la parte di protagonista. Dicevano che ero un nano con la voce di una cornacchia». Lo stesso anno, nel 1960, gira un film che provoca scandalo, Il passaggio del Reno di André Cayatte: impersonava un soldato francese che prigioniero nella Germania nazista si innamora di una giovane contadina nella fattoria dove lavora. Dopo la guerra, preferisce tornare al di là del Reno piuttosto che vivere in Francia. Charles De Gaulle intervenne affinchè il film non fosse premiato a Venezia, ma Aznavour continuò a essere amato a Parigi, e per i tedeschi divenne il simbolo del riscatto, che le colpe del passato potevano essere superate, se non dimenticate. Volker Schlöndorff lo volle per Il tamburo di latta, che vinse l'Oscar nel 1980.
A LUNGO nessuno seppe che la famiglia Aznavour aveva nascosto a casa degli ebrei durante l'occupazione nazista a Parigi, rischiando la deportazione, finché Israele non premiò Charles con una medaglia. Qual è il segreto della sua longevità? gli fu chiesto. «Amo il mio lavoro, chi si annoia, invecchia prima». Quale la sua canzone che ama di più? Rispose: «L'Istrione». I suoi versi sono una sorta di autobiografia: «... sono un istrione, il palcoscenico è la mia dimensione... e la vita torna in me».
IL FOGLIO - Giulio Meotti: "Aznavour, lo chansonnier che portava le cicatrici dello scontro di civiltà"
Giulio Meotti
Roma. Venne al mondo come Shahnour Vaghinag Aznavourian, per cambiarlo in Charles Aznavour, figlio dei primi laceri boat-people che negli anni Venti fuggirono il genocidio turco sbarcando a Marsiglia. “Sono indissociabilmente francese e armeno”, diceva di sé Aznavour, morto ieri a 94 anni. Era nato nel quartiere latino di Parigi da genitori armeni, scampati fortunosamente ai massacri turchi del 1912. Sua sorella Aida, d’un anno e mezzo più vecchia, era nata in Grecia, mentre la famiglia profuga vagava in cerca d’asilo. Questi drammatici antefatti avrebbero lasciato segni profondi nel carattere dell’artista, facendone un ambasciatore itinerante della Repubblica armena. Accanto alla sterminata produzione musicale, Aznavour era speciale per certe sue prese di posizione che ne facevano una rarità nel mondo artistico. Come quando, nel 2013, appose la sua firma al manifesto dei salauds, i maiali, i mascalzoni, che denunciarono la criminalizzazione per legge della prostituzione: “Pensiamo che ciascuno abbia il diritto di vendere liberamente le sue virtù, e persino di trovarlo appagante, e rifiutiamo che dei deputati emanino norme sui nostri desideri e sui nostri piaceri”, si leggeva. Cinque anni dopo il #MeToo avrebbe travolto tutto. In quell’appello c’era anche l’eco della biografia musicale di Aznavour: per anni, le sue canzoni erano state giudicate “immorali” e la radio gliene rifiutava più della metà (era stata Edith Piaf a incoraggiarlo a cantare). Nel 2014 Aznavour propose una specie di ponte aereo per salvare i cristiani d’oriente minacciati di morte dall’Isis, per portarli in Europa e insediarli nei villaggi “che devono essere ripopolati”. “Sono preoccupato per questa popolazione che è massacrabile!”, disse il cantante a novant’anni. Fu uno dei pochi musicisti di fama mondiale a parlare, in effetti, di quel genocidio bianco in corso. “Questi villaggi devono essere ripopolati! Il municipio esiste ancora, l’ufficio postale pure, la chiesa è vuota…”, disse Aznavour. “Non puoi vivere così, da egoista, devi fare qualcosa!”. E “Contro l’Isis aveva una ricetta semplice, che scandí cosí parlando all’Obs: “Voi uccidete, noi uccidiamo. Occhio per occhio, dente per dente!”. Lo scorso aprile, Aznavour ha firmato un altro appello che ha fatto discutere: “La Francia è diventata teatro di un mortale antisemitismo. Questo terrore si diffonde, provocando sia la condanna popolare sia il silenzio mediatico”. Si apriva così la presa di posizione francese più importante contro il nuovo antisemitismo. L’appello, pubblicato su Le Parisien e firmato da trecento personalità fra cui il cantante armeno, era scaturito dopo l’uccisione a Parigi di Mireille Knoll. “Quando un primo ministro all’Assemblea nazionale dichiara, tra gli applausi del paese, che la Francia senza gli ebrei non è più la Francia, non è una bella frase di consolazione ma un avvertimento solenne: la nostra storia europea, per ragioni geografiche, religiose, filosofiche, giuridiche, è profondamente legata a varie culture tra le quali il pensiero ebraico. Undici ebrei sono stati assassinati – e alcuni torturati – perché ebrei, da islamisti radicali”. Mica poca cosa, per un Frank Sinatra francese. Diceva di “cantare i sentimenti comuni”, Aznavour, ma non travestiva l’amore con ricchi abiti sentimentali. Non prometteva lieti fini mielati. Cantava la tristezza dell’esistenza e milioni ci trovavano un senso. Per questo ci mancherà, oltre che per la sua capacità di fregarsene altamente e di assumere posizioni che si portano sempre molto poco nel dorato mondo dell’intrattenimento.
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