In teoria Abu Mazen ha tempo fino a domani per la presentazione del nuovo governo palestinese. In pratica la domanda alla quale tutti si affidano per sapere che ne sarà del conflitto israelo-palestinese è se vincerà lui o sarà ancora Arafat a distribuire le carte del potere.
Arafat, dato da tutti per eliminato dalla scena politica, sembra ogni volta risorgere dalle proprie ceneri. Naturalmente è dall'esterno dell'Autorità palestinese che gli arriva la linfa indispensabile per rimanere a galla. Ai primi del mese il ministro degli esteri tedesco Fischer è andato a trovarlo a Ramallah, seguito da altri politici e diplomatici europei. Anche tre membri del congresso americano gli hanno fatto visita, proseguendo poi per Damasco dove domenica sono stati ricevuti da Assad. Tutta manna per chi sente il potere vacillare. Ma si sa, in democrazia tutto è concesso. E anche di più. Ed è bene che sia così, anche se a volte si fa fatica a capirne le ragioni.
Sono giorni che Abu Mazen lascia il tavolo delle trattative e se ne va sbattendo la porta. Arafat, nel designarlo primo ministro, non si aspettava che il suo vice di sempre gli avrebbe preparato una lista di ministri che di fatto cancellava tutti i suoi uomini di fiducia. Imponendogli anche l'odiato Mohammed Dahlan, l'ex capo della sicurezza a Gaza, pronto oggi ad assumersi il ruolo di uomo forte del nuovo governo, in grado di fermare con ogni mezzo il terrorismo palestinese. Per questo suo ruolo Arafat si oppone violentemente alla sua nomina. E'sul terrorismo che Arafat conta ancora oggi per mobilitare le sue masse di manovra. Sente che Il suo popolo l'ha già delegittimato e cerca in ogni modo di garantirsi il potere cercando di imporre un governo fatto da uomini scelti da lui e perciò a lui obbedienti.
Abu Mazen l'ha deluso. Se Dahlan riuscirà ad essere nominato ministro degli interni, Arafat avrà definitivamente perso il braccio di ferro che finora l'ha opposto a Abu Mazen. Sia gli Stati Uniti che Israele guardano a Dahlan come a un politico pragmatico,pronto,grazie alla sua esperienza di responsabile della sicurezza a Gaza (e per questo defenestrato da Arafat), a garantire il passaggio dell'Autorità palestinese dal terrorismo al dialogo.
Occorre dire che Arafat, in questo che si spera sia l'ultimo colpo di coda, non è solo. Da Fatah a tutti i gruppi terroristici che in qualche misura da lui dipendono, sanno che con l'arrivo di Abu Mazen e Dahlan al comando la politica palestinese cambierà. E non nel verso che loro si augurano. Certo, se resta ministro degli interni uno come Hanni el Hassan,ubbidiente esecutore degli ordini di Arafat, l'aria sarà sempre la stessa
Anche se Shaul Mofaz, ministro della difesa del governo israeliano, si augurava domenica che America e Europa potessero dare una mano al cambiamento, in sostanza che aiutassero Abu Mazen a resistere agli ostacoli che Arafat frappone alla formazione di un nuovo governo, Israele mantiene in tutta questa vicenda un basso profilo. "Sono affari interni palestinesi", dicono a Gerusalemme, "Ma fin tanto che Arafat sarà al potere Israele non parteciperà a nessuna discussione sulla Road Map". Per ballare il tango bisogna essere in due - dicono al ministero degli esteri- ma quello che è certo è che Israele il tango non lo ballerà mai con Arafat.
Nelle prossime ore scatterà il momento della verità per i palestinesi. Affindandosi ad Abu Mazen non faranno di certo un piacere a Israele, ma se Arafat farà le valigie potranno dire di aver posto le basi per un futuro che potrà prevedere un loro stato autonomo. Quel che Arafat,nella sua forsennata voglia di distruggere lo stato ebraico, non gli aveva mai permesso di ottenere. Abu Mazen, il cui passato non è certo acqua e sapone per Israele (si veda il suo ritratto nella scheda qui accanto), è oggi la carta che ci consentirà di capire quale strada prenderànno i rapporti fra israeliani e palestinesi. Ma non solo. Se Arafat rimane, rischia di saltare anche il piano di modernizzazione, o di allagamento della democrazia se si preferisce, che la liberazione dell'Iraq ha lanciato quale sfida a tutto il mondo arabo.
Abu Mazen (Mahmoud Abbas), che sarà forse il prossimo primo ministro dell'Autorità palestinese, ha 68 anni. Una vita segnata dalla condizione di rifugiato, ma anche dal pragmatismo. Come ha scritto Yossi Klein su Haaretz, Mazen conosce la differenza fra nostalgia e memoria. Sa che è nato a Safed, ma riconosce anche che il passato non ritorna. La città della sua infanzia non è più quella di una volta. Molto più di Safed, nella sua vita hanno contato altre città. Damasco, dove si trasferì la sua famiglia durante la guerra d'indipendenza (1948) e dove studiò legge all'università, fino a Mosca dove presentò la sua tesi di dottorato incentrata sui rapporti fra Nazismo e Sionismo durante la Shoah. E'superfluo dire che se Abu Mazen invece di dedicarsi alla politica avesse seguito la sua vocazione di storico, nessuno gli negherebbe oggi una posizione di primo piano fra i negazionisti della Shah.
A meno che,passando gli anni e l'effetto obnubilante delle ideologie, anche su questo argomento non fosse intervenuto un bel passaggio di campo, a tutto vantaggio del suo futuro di politico. Abu Mazen si trasferisce a Tunisi, dove diventa uno dei leaders
di Fatah e dell'OLP. Da quel momento il suo destino sarà legato a quello di Arafat, anche se la sua presenza nei territori palestinesi è ben diversa da quella del rais. Mentra Arafat non ha mai avuto alcun legame con il popolo palestinese, Mazen ha casa sia a Gaza che a Ramallah, anche se la sua famiglia oggi vive tra il Qatar e Abu Dhabi. Ha perduto un figlio lo scorso anno,morto per infarto a soli 42 anni.
Abu Mazen è stato uno dei protagonisti degli accordi di Oslo,falliti come tutti sanno per il no di Arafat. Sarà forse quella partecipazione ad avergli fatto capire che con l'intransigenza ed il terrorismo come metodo non si va molto lontano. Da qui il suo pragmatismo, che oggi lo fa ritenere un interlocutore con il quale mettersi al tavolo delle trattative.
Parlando qualche mese fa nel campo profughi di Yarmuk, in Siria, Abu Mazen ha detto:
"Non ritornerete nelle vostre case o nei villaggi nei quali siete nati. Quelle case,quei quartieri, quei villaggi non esistono più. Nuove città sono state costruite sulle vostre terre e bambini ebrei sono nati nelle vostre case. Sareste una minoranza palestinese, con una lingua che non è quella dello stato, nè la cultura,la bandiera nè l'inno saranno i vostri. Nessun lavoro vi attende nè volti a darvi il benvenuto".
Sarebbe stato troppo pretendere da Abu Mazen la spiegazione del perchè la storia sia andata in quel modo e di chi sia stata la responsabilità. Ma anche se con parole amarissime è evidente l'approccio del tutto realista alla questione. Una risposta alla richiesta di Arafat in merito al ritorno dei profughi.Come a dirgli, se vuoi davvero lo stato palestinese smettila di cercare di distruggere quello ebraico. Vedremo se sarà lui a sedersi intorno al tavolo e discutere con Ariel Sharon il futuro dei due popoli.