Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 16/09/2018, due servizi, il primo a pag.1/19 del direttore Muarizio Molinari, il secondo di Alessandro De Nicola a pag.19, preceduti da un nostro commento.
Caos, l'unica parola comprensibile nella confusione politica nalla quale sta affondando il dibattito politico in Italia. Chi si oppone alla apertura delle frontiere in modo indiscriminato è automaticamente definito "xenofobo". Chi ritiene che i confini abbiano ancora una funzione indispensabili in quanto a sicurezza, si becca un bel "razzista". Chi critica certe posizioni dell'Europa- noi di IC in modo totale la sua politica estera- è un "sovranista".
Abbiamo ripreso queste due analisi perchè, per alcuni versi, si staccano dalla retorica umanisteggiante,che, dal Vaticano fino a tutta la sinistra,anche quella moderata, invece di entrare in merito, non sa far altro che sfruttare le parole di cui sopra. Chi non sta dalla loro parte sono i "cattivi", mentre i "buoni" sono quelli che si sciacquano la bocca in continuazione con il dentifricio 'PACE'. Quelli che conoscono malamente la Storia, non sanno che tutte le guerre sono state precedute da magniloquenti affermazioni, appelli pacifisti.
Bene, noi siamo tra i cattivi, qualche compagnia può anche non piacerci, ma tra i "mental chic"- come li ha definiti un nostro lettore- preferiamo i politici che non si nascondono dietro alune parole-slogan, ma si fanno giudicare dai fatti.
Ecco le due analisi:
Maurizio Molinari: "L'Europa nella morsa delle tribù"
Maurizio Molinari
L a rivolta del ceto medio contro diseguaglianze e migranti alimenta un tribalismo politico che indebolisce gli Stati nazionali nell’Ue e si annuncia come il protagonista delle elezioni europee di fine maggio che possono stravolgere la composizione del Parlamento di Strasburgo. Gli Stati nazionali dell’Ue sono in affanno nell’affrontare questa doppia sfida perché le rispettive leadership politiche ed economiche appaiono largamente impreparate. L’arrivo dei migranti ha subito un’accelerazione dal 2015, su impatto della guerra civile siriana, catapultando una moltitudine di disperati verso l’Ue senza che Bruxelles sia riuscita a darsi una coerente politica di protezione dei confini, accoglienza dei profughi ed integrazione dei nuovi arrivati. Tale carenza di unità nell’azione ha lasciato i singoli Stati soli davanti all’impatto dei migranti e ciò ha portato ad un risveglio dei nazionalismi, alla chiusura verso lo straniero e più in generale ad un ritorno alla dimensione delle piccole patrie. È un domino di emozioni, linguaggi e identità tribali che attraversa l’intera Unione europea manifestandosi nelle forme più diverse: l’estrema destra polacca o ungherese ripudia i migranti come appestati, la Cdu di Merkel cede terreno alle posizioni sui respingimenti dei conservatori bavaresi, nuove forze populiste si fanno largo in Svezia e Paesi Bassi, il cancelliere austriaco fa comizi in Alto Adige sui doppi passaporti a dispetto dell’opposizione di Roma, lo schieramento della polizia francese fra Ventimiglia e Bardonecchia è oramai massiccio, la Brexit britannica minaccia di paralizzare Dover-Calais e gli assalti dei disperati maghrebini alle reti metalliche di Ceuta si moltiplicano. È lo scenario di un’Europa dove i confini sono tornati prepotentemente protagonisti alle spese del progetto di spazio comune europeo. Le forze anti-migranti crescono a vista d’occhio in più Paesi, Italia compresa, perché l’assenza di capacità - e volontà - degli Stati di trovare politiche comuni spinge le singole opinioni pubbliche a cercare sicurezza nel nazionalismo atavico, ovvero nella negazione dell’idea stessa di Unione europea. In maniera analoga i Paesi europei stentano ad aggredire le diseguaglianze economiche frutto della globalizzazione perché la lotta alla povertà avviene ancora quasi ovunque con strumenti tradizionali - sussidi, occupazione, sgravi fiscali - e non con investimenti sulla formazione per poter rigenerare una forza lavoro - giovane o meno - indebolita e minacciata dall’innovazione tecnologia. Ciò significa che milioni di famiglie residenti nelle aree più disagiate del Vecchio Continente, dalla Francia rurale alla Germania Est, dalle periferie italiane a quelle di Malmoe si sentono aggredite su due fronti - migranti e diseguaglianze - senza che nessun leader europeo riesca neanche ad elaborare una soluzione concreta, innovativa, coraggiosa per soccorrerli. I partiti della protesta, populisti o meno, hanno così gioco facile nel presentarsi ai nastri di partenza della campagna per le europee 2019 puntando a imporsi su rivali tradizionali espressione di un establishment che oltre ad essere espressione del Novecento è anche inefficiente. Se la dinamica non cambierà, il vento populista e sovranista investirà Bruxelles precipitando le istituzioni verso un pericoloso ritorno alla stagione della sovranità degli Stati ovvero al periodo pre-Maastricht. Per frenare tale china c’è bisogno di un nuovo serbatoio di idee capaci di assegnare all’Europa ambiziosi orizzonti. Le diseguaglianze per essere identificate richiedono il superamento dell’attuale formulazione del Pil, per essere contrastate hanno bisogno di imponenti investimenti nella formazione ed il motore di tutto ciò deve essere una nuova dottrina economica il cui obiettivo è riqualificare coloro che sono stati espulsi dal ciclo produttivo a causa delle nuove tecnologie. Così come sul fronte dell’immigrazione serve un approccio capace di coniugare l’inserimento nel mondo del lavoro di lavoratori stranieri qualificati con l’integrazione di culture che non potrebbero essere più distanti perché lo Stato di Diritto nelle democrazie avanzate ha nel multiculturalismo un elemento di forza. Si tratta insomma di ridisegnare l’Europa, in maniera a tal punto concreta sulle risorse e visionaria nelle ambizioni da esprimere una volontà rivoluzionaria capace di spazzare via ogni tentazione di ritorno al passato più buio. Ma se nessun leader o partito si assumerà tali responsabilità, l’esito di maggio è già segnato: uno tsunami populista investirà le istituzioni europee con conseguenze imprevedibili.
Alessandro De Nicola: "La grande occasione del pensiero liberale "
Alessandro De Nicola
Magistrale l'ultima riga
In occasione dei suoi 175 anni di esistenza, il più importante settimanale del mondo, «The Economist», ha pubblicato un «Manifesto per un nuovo liberalismo». La diagnosi svolta dal settimanale è nota: pochi anni dopo la caduta del muro di Berlino, all’interno dell’Occidente si è verificata una preoccupante erosione del consenso verso i valori liberal-democratici e quelle che il settimanale chiama le élite liberali. La crisi finanziaria del 2008 e subito dopo quella dell’immigrazione in Europa hanno fatto da detonatore ad un malcontento che comunque covava già sotto la cenere. I motivi erano diversi da Paese a Paese: dalla crescente ineguaglianza simboleggiata negli Stati Uniti dall’esplosione dei costi per mandare i propri figli all’università, all’emergere di un atteggiamento culturale che privilegia all’interno della società l’appartenenza ad un genere, razza, religione, orientamento sessuale, per finire con l’inadeguatezza e i costi crescenti dei sistemi di welfare disegnati dai governanti occidentali nell’immediato dopoguerra. Le élite liberali, secondo il giornale britannico, prive di un nemico che ne mettesse in pericolo l’esistenza (come fascismo, nazismo e comunismo) o di una voglia di riscatto dopo severi traumi (la grande depressione o le guerre mondiali), sono diventate autocompiacenti, si sono adagiate sul sistema che le ha fatte prosperare e hanno perso il radicalismo riformatore tipico di quei liberali che, ad esempio, fondarono l’«Economist» nel 1843. Da qui la proposta del settimanale di un nuovo Manifesto che prende forma di un lungo saggio di cui è inutile fare la parafrasi perché disponibile in edicola. Ciò che preme affrontare qui e che dovrebbe essere oggetto di dibattito serrato soprattutto nel nostro Paese, sono tre importanti aspetti. In primis, non si confonda il messaggero con il messaggio. Se si pensa che la classe dirigente abbia fallito a causa del liberalismo si rende inevitabile cambiare entrambe. Invece in Italia sono le élite ad aver deluso proprio per non essere state abbastanza liberali ma aver bloccato la mobilità sociale e la società delle opportunità con regole, tasse, clientelismo, asservimento al potere economico ed invadenza del potere politico. L’ideologia della correttezza politica (e i suoi corollari in tema di immigrazione) ha poi aiutato una reazione che oggi chiamiamo sovranista la quale ha adottato ricette uguali e contrarie. In secondo luogo, il radicalismo necessario per rivitalizzare il liberalismo deve partire dal rendere evidente i vizi del tribalismo. Quando con atteggiamento vittimista ce la si prende irragionevolmente coi migranti o coi tedeschi, non ci si deve stupire che altri ci considerino parassiti gaudenti o razzisti latenti. Il tribalismo non aiuta, ma rende vittima sul serio. Questo vale anche quando Serena Williams, dopo aver imbrogliato ed insultato l’arbitro, lo apostrofa come «maschilista» se la punisce, contribuendo ad rafforzare pregiudizi sulle troppa emotività e sull’ingiustizia della discriminazione positiva da cui sarebbero favorite le donne. Il vittimismo tribale colpisce l’intera tribù. Terzo, la libertà di espressione è il primo fondamento di una società non solo liberale, ma decente ed umana. Essa deve essere difesa sia dalle aggressioni degli sciami organizzati nei social (diffamazione, minacce e insulti vanno puniti e l’anonimato non è una garanzia di libertà quando viola i diritti altrui), sia dalle ancor più pericolose intimidazioni che chi governa rivolge ai media. E’ solo in un civile mercato delle idee che si riesce a prosperare ed è questa la battaglia prioritaria da vincere. Impegniamoci dunque su punti concreti, mentre le palingenesi lasciamole al Manifesto più famoso della storia, pubblicato nel 1848 da 2 intellettuali tedeschi: si rivelò una catastrofe.
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