Riprendiamo da REPUBBLICA di oggi, 13/09/2018, a pag. 38, con il titolo "Sharon Eyal: 'Il corpo è forza e debolezza e la musica dà il ritmo' " l'intervista di Giuseppe Videtti alla coreografa israeliana Sharon Eyal.
Ecco l'intervista:
Giuseppe Videtti
Alla fine della performance di Love Chapter 2, mentre il sipario scende sui sei ballerini in cerca d’amore (o in fuga da esso?), il pubblico del Sadler’s Wells di Londra scatta in piedi. La standing ovation di solito arriva dopo un lungo applauso, in questo caso invece è immediata, liberatoria — urgenza di sciogliere la tensione accumulata, di partecipare alle tribolazioni che quei corpi hanno espresso in sessanta minuti senza intervallo usando una fisicità viscerale. Alla fine dell’interminabile ovazione, quasi a offrire un segno di distensione dopo tanto tormento, la coreografa israeliana Sharon Eyal, 47 anni, entra in scena con il marito e collaboratore Gai Behar e il figlioletto di nove anni. Il grande William Forsythe ha detto che se il balletto non è diventato un’arte obsoleta è anche merito della Eyal e della sua L-E-V Company, che tornano in Italia a fine settembre: il 24, 25 e 26 al Romaeuropa Festival con tre rappresentazioni di Love Chapter 2; il 29 e il 30 al Torinodanza rispettivamente con OCD Love (che debuttò al Romaeuropa due anni fa) e il sequel Love Chapter 2, entrambi osannati dal Guardian e dal New York Times. Di persona la Eyal è la quintessenza dell’artista. Gli scarponi da combat rocker contrastano con l’abito leggero, a fiori. Lo sguardo, camuffato con vistosi disegni geometrici agli angoli degli occhi, è inafferrabile; l’espressione distorta da un rossetto sbafato ad arte — più Björk che Martha Graham. Quando parla d’amore — il tema dei due ultimi allestimenti — fa pensare a Joni Mitchell («La felicità è breve e la solitudine ha un’infinità di variazioni» ) e James Baldwin («L’amore non inizia e finisce come ci aspettiamo. È una battaglia, una guerra, un crescendo» ). «Lavoro in territori inesplorati, cose che neanche io conosco. L’amore è il motore di tutto, niente di scontato, qualcosa che apprendo giorno per giorno», esordisce la Eyal in una pausa pomeridiana nel bar del Sadler’s. «In spettacoli come questo, è d’obbligo non crearsi aspettative per non rimanere delusi. Meglio arrivare liberi e aperti. Ripeto sempre: la libertà non è soltanto uno stato indispensabile per l’artista ma anche per il pubblico».
Sharon Eyal
Qual è la differenza tra i due spettacoli incentrati sullo stesso tema? «Molto uguali e molto diversi; un diverso livello di fisicità ed emotività. È come quando hai una ferita sulla pelle, e giorno dopo giorno diventa più grande, più profonda, si infetta. Volevo comunicare sensazioni forti. L’aspetto narrativo è irrilevante, ci sono ispirazioni che arrivano dall’inconscio, solo in seguito mi rendo conto del perché di alcune scelte. Evito di schematizzare, semplificare o ideologizzare. Quando i ballerini trovano difficile o impossibile esprimere qualche movimento dico loro: cercate dentro il vostro corpo» .
Per qualcuno potrebbe essere un processo arduo. Come riesce a istruirli? «Questa è un’arte che si esprime attraverso il corpo e il movimento. Il processo è lungo, qualche volta felice, altre doloroso. C’è una regia che filma tutte le prove, i ballerini riguardandole riescono a imparare meglio, ad andare più in profondità, a sfidare i propri limiti. Entrando in contatto con la loro solitudine interiore riescono a ottenere risultati inaspettati. È una tecnica molto difficile, impossibile metterla in pratica senza quello che io definisco " sentimento totale" o fisicità estrema».
Quali requisiti deve avere un ballerino per entrare in compagnia? «Prima di tutto una sconfinata capacità di "sentire", curiosità, eccitazione, disponibilità, apertura, generosità, purezza, precisione, intelligenza, pulizia, personalità, capacità di cullare il bambino e accarezzare il vecchio che hanno dentro. Tutto quel che è "totale" mi trova d’accordo e in sintonia. La mia collaborazione con Gai Behar è proprio orientata in questo senso. Siamo una coppia, è il mio amore, viviamo insieme. Lui non è un ballerino, ha un background diverso, è un artista multimediale, io provengo da una compagnia prestigiosa come la Batsheva, dove ho lavorato dal 1990 al 2008. Capita a volte che lui rompa le mie convinzioni con nuovi e inediti punti di vista. Qualcuno può pensare che non sia facile per una coppia esplorare il lato oscuro dell’amore, per noi è indispensabile».
Qual è il percorso che si era prefissata quando abbandonò la compagnia? «Rispettare il sistema ma essere libera, usare il mio linguaggio. Incominciai a ballare a quattro anni, sono cresciuta adorando Balanchine — ho ancora tutti i suoi video — e William Forsythe — mi ha commosso quel che ha detto su di me. Solo più tardi ho scoperto Pina Bausch; mi lusinga che i nostri compleanni siano così vicini, io sono nata il 25 luglio e lei il 27».
Ohad Naharin
Negli anni con la Batsheva lei ha fatto tesoro della tecnica "gaga" sviluppata da Ohad Naharin per migliorare le prestazioni fisiche dei ballerini anche con l’aiuto della musica (in "Love" la techno di Ori Lichtik è parte integrante dello spettacolo). «È una tecnica fantastica, mi ha fatto capire che il punto di partenza è sempre all’interno del corpo, forza e debolezza; mi ha dato la libertà di esprimere me stessa e trovare la felicità anche nei lati oscuri della coscienza. La musica è essenziale, stabilisce un mood, suggerisce movimenti, improvvisazioni inaspettate; le due cose sono inscindibili, per questo è importante che venga eseguita dal vivo».
Qual è la sua missione? «Sfruttare il potere dell’arte: curare, aiutare, unire, condividere».
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