La politica di Donald Trump verso gli arabi palestinesi
Commento di Antonio Donno
Donald Trump
Il Dipartimento di Stato americano ha annunciato che chiuderà la rappresentanza palestinese a Washington, se l’Autorità Palestinese dovesse rifiutare il piano di pace proposto dagli Stati Uniti. Si tratta dell’ultimo atto della politica mediorientale di Trump, dopo le numerose iniziative prese a largo raggio nei confronti dei nemici di Israele. In precedenza, le sanzioni contro l’Iran e l’abbattimento dell’accordo stipulato tra Teheran e Washington ai tempi di Obama erano stati ben accolti dall’Iraq, che, dopo le recenti elezioni, conta su tre formazioni, delle quali due – quella capeggiata da Ali Sistani e l’altra da Muqtada al-Sadr –, benché ambedue sciite, si oppongono decisamente all’influenza dell’Iran nel proprio Paese. In questo contesto, la decisione di Trump di mantenere la presenza di duemila soldati americani in Iraq va nella direzione di salvaguardare il regime sciita iracheno, ma chiaramente anti-iraniano. Naturalmente, c’è da sottolineare che la situazione ingarbugliata mediorientale non concede mai margini di certezza per qualsiasi iniziativa e situazione che sembrino adeguate ai fatti.
Hillel Frisch
Comunque, la decisione di Trump è positiva. Lo scrive il prof. Hillel Frisch in “Besa Perspectives” del 7 settembre 2018, con un articolo dal titolo significativo: “Trump Is Showing Acumen in Iraq”. È quasi impossibile, di questi tempi, leggere un articolo favorevole a Trump, ma la verità spesso sopravanza la calunnia. Infatti, la politica mediorientale di Trump è poggiata su solide basi d’analisi; nel caso iracheno, scrive Frisch, “la ragione vera perché gli Stati Uniti si confermino in Iraq è di prevenire che il Paese mediorientale diventi uno Stato-cliente dell’Iran, come il Libano è divenuto e come la Siria potrebbe presto divenire”. Oltre a ciò, si deve aggiungere la necessità di eliminare la residua presenza dell’ISIS in Iraq. Infine, Frisch sostiene che l’opposizione all’Iran da parte delle formazioni politiche sciite irachene è legata al fatto che “l’identità sciita irachena è gelosa della propria indipendenza dall’Iran e dalla sua leadership clericale”. Da aggiungere ciò che scrive Bernard Lewis nel suo fondamentale “La costruzione del Medio Oriente”: “La linea di demarcazione tra arabi e non arabi è antica, e la frontiera da essa contrassegnata lungo le pendici delle montagne lo è molto di più”. Quest’ultimo dato è fondamentale. Il fattore religioso è decisivo nella storia politica e sociale del Medio Oriente. Ciò va riferito non solo – come è ben noto – all’odio islamico verso gli ebrei, un odio che non avrà mai fine, ma, nel caso in questione, alla frattura che la teocrazia iraniana ha prodotto nel mondo arabo. Non che in quest’ultimo vi sia una separazione netta tra religione e vita politica: questo è storicamente evidente e risaputo. Il fatto è che l’invasione del fattore religioso negli Stati arabi della regione e la sua eventuale conquista del potere, assoggettando le istituzioni di quei paesi al potere religioso, travolgerebbe e annichilirebbe quelle conquiste laiche nella conduzione degli affari politici e diplomatici che i Paesi arabi sunniti – Egitto, Giordania, Iraq, la stessa Siria – avevano raggiunto tra gli anni che precedettero lo scoppio del secondo conflitto e l’immediato dopoguerra. È questo l’interrogativo che si è posto Bernard Lewis a conclusione dell’opera citata: “La regione verrà dominata di nuovo, come ai tempi di ottomani, safavidi, o di bizantini e sasanidi, dagli altipiani dell’Anatolia e dell’Iran?”.
Antonio Donno