|
|
||
1938-2018: 80 anni per non dimenticare le leggi razziste in Italia
Appena uscita nelle librerie in occasione dell’ottantesimo delle leggi razziali in Italia, l’antologia “1938. Storia, racconto, memoria” (Giuntina, 2018), curata da Simon Levis Sullam e con una postfazione di Marina Mengoni, pone decisamente una serie di problemi di natura epistemologica sulla trasmissione della memoria della Shoah. Non si tratta soltanto del rapporto tra letteratura e storia, tra fiction e documentazione storica, ma di come i “testimoni secondari” e indiretti possano oggi – nell’era della “post-memoria” – narrare a loro volta quei fatti tremendi di cui non sono stati protagonisti. Già Aharon Appelfeld si era interrogato su come trasferire il proprio vissuto in forma narrativa. Lo aveva spiegato egli stesso in un passo illuminante della sua autobiografia, “Storia di una vita”(Giuntina, 2001): “Sulla seconda guerra mondiale sono state scritte soprattutto testimonianze; si riteneva che le testimonianze fossero un’espressione autentica, mentre la letteratura era considerata un’elaborazione artificiale. Io non avevo neppure una testimonianza. Non ricordavo nomi di persone né di luoghi, solo oscurità, fruscii e movimenti. Solo più tardi compresi che questo materiale grezzo è la linfa della letteratura, con la quale si può alimentare una storia interiore. Dico “interiore” perché a quei tempi si stimava che la cronaca fosse depositaria della verità. L’espressione interiore non era ancora nata” (p. 98).Ed ancora lo aveva ribadito anni dopo: “Credevo, e ancora credo, che soltanto l’arte abbia il potere di riscattare la sofferenza dall’abisso” (“Oltre la disperazione”, Guanda, 2016, p. 19). La sfida vera di questa antologia è, dunque, quella di “far raccontare la storia – o almeno i suoi contenuti – attraverso le storie, cioè i racconti, le narrazioni” (p. 7) non tanto agli scrittori di professione, quanto agli storici, chiedendo loro di scrivere di fiction, e di abbandonarsi alla narrazione creativa, pur partendo dalla verità storica delle persecuzioni antiebraiche. Non è stata, e non è, una sfida facile. È vero che ormai lo statuto epistemologico delle discipline storiche prevede la “narrazione” (Ennio Di Nolfo, “Prima lezione di storia delle relazioni internazionali”, Laterza, 2006), ma non sempre tutti gli storici riescono a scrivere i loro saggi seguendo un ritmo interiore narrativo, così come ancora più difficile è per loro partire da una fonte documentaria per costruirci attorno una struttura di fiction e, dunque, ponendosi ad un livello diverso di testimonianza. Il problema era stato già sollevato dal Manzoni, come ben ricorda Martina Mengoni nella postfazione all’antologia, e costituiva l’elemento strutturale più importante della stesura de “I promessi sposi”. Ma, al di là delle tematiche generali del romanzo storico, è stata la Shoah a porre sul tappeto i più grandi problemi del rapporto tra storia e memoria e, soprattutto, della memoria narrata. Dopo una fase iniziale, in cui i sopravvissuti cercarono di raccontare la loro tragica esperienza e si trovarono di fronte all’indifferenza o all’incredulità delle persone, ebbe inizio la lunga fase del silenzio, interrotta solo dopo molti anni, quando si instaurò improvvisamente una sorta di “domino” della memorialistica: cominciarono in pochi a raccontare e, sull’onda dell’emozione e dell’abbandono di ogni timore, furono seguiti da tanti, moltissimi altri. I loro racconti avevano tutti un tratto comune: pur essendo storie soggettive, si inserivano in una sequenza quasi lineare, oggettiva, quella della pianificazione a tavolino del più grande genocidio della storia umana, ed erano accompagnati tutti da uno stesso sguardo fisso nel vuoto, pieno di una vita strappata e di una conoscenza diretta del male assoluto. Da quel momento, la memorialistica e, con essa, la ricostruzione storica della Shoah subì un’incredibile impennata. Si trattò sicuramente di uno dei pochi casi in cui la storia “dal basso” ha preceduto la storia accademica, accompagnandola e spesso anche guidandola su nuove vie di ricerca. Da qual momento, gli studi sulla Shoah si sono triplicati, ma nel frattempo cominciava a porsi il problema dei testimoni: dopo la loro morte, chi avrebbe raccolto l’eredità della memoria? In questa nuova fase, dunque, ci si cominciò ad interrogare sulla natura, le modalità e le caratteristiche dei nuovi “secondary witness”, dei narratori ormai cronologicamente distanti dai fatti o, addirittura, con la nuova generazione di scrittori, completamente estranei ai primi. Si è, dunque, nella fase della “post-memoria”, una fase in cui la memoria viene ereditata e rielaborata da testimoni indiretti, di terza generazione, definiti da Raffaella Di Castro come “testimoni del non-provato” (“Testimoni del non-provato. Ricordare, pensare, immaginare la Shoah nella terza generazione”, Carocci, 2008). In questa fase, allora, si aprono nuove sfide, quelle sfide offerte dalla “finestra” che, secondo Zygmunt Bauman, l’Olocausto ha rappresentato e rappresenta: “L’Olocausto era una finestra, piuttosto che un quadro appeso alla parete. Spingendo lo sguardo attraverso quella finestra era possibile cogliere una rara immagine di cose altrimenti invisibili. Cose della massima importanza non soltanto per i responsabili, le vittime e i testimoni del crimine, ma anche per tutti coloro che sono vivi oggi e sperano di esserlo domani. Ciò che vidi attraverso quella finestra non mi parve affatto piacevole. Ma quanto più la vista risultava deprimente, tanto più mi convincevo che chi avesse rifiutato di guardare lo avrebbe fatto a proprio rischio e pericolo”(“Modernità e Olocausto”, Bologna, 1997, p. 8). In sostanza, oggi la sfida più grande consiste nel far spingere lo sguardo attraverso quella finestra anche a chi a quella finestra non si era mai avvicinato prima, nella consapevolezza che – come scrisse Janusz Korczak, “quando scavi un pozzo, non cominci il lavoro dal fondo: rimuovi dapprima lo strato superiore, togli la terra con una palata dietro l’altra, senza sapere che cosa troverai più sotto, quante radici intricate, quanti ostacoli e quante difficoltà, quanti sassi o quanti oggetti resistenti dimenticati, che tu stesso o altri avevate sotterrato” (“Diario del ghetto”, Luni, 1997, p. 16).
|
Condividi sui social network: |
|
Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui |