Riprendiamo dal SOLE24ORE-DOMENICA di oggi, 09/09/2018 a pag.24, con il titolo "La Rivelazione, presupposto della filosofia" la recensione di Giulio Busi al libro di Davide Monaco sulle radici ebraiche di Leo Strauss.
Giulio Busi
Una fiammata. Filosofica fin che si vuole, ma con le sue belle lingue di fuoco, di quelle alte, che si vedono di lontano. Fino a una ventina di anni fa, il nome di Leo Strauss era noto quasi solo agli addetti ai lavori. Un serio professore di storia della filosofia, molto influente nell'accademia americana, dallo stile meticoloso e piuttosto oscuro. Poi, di colpo, la vampata di celebrità. Una fortuna postuma, giacché Strauss si era spento già nel 1973.
A portarlo alla ribalta, come "grande vecchio" del neoconservatorismo statunitense, è stato l'influsso di alcuni dei suoi allievi nell'amministrazione di George W. Bush. Primo fra tutti, Paul Wolfowitz, Sottosegretario di Stato alla Difesa, teorico di spicco della politica estera di quel periodo.
Negli anni Novanta e nei primi Duemila, per capire gli orientamenti e la strategia neocon, in molti hanno indagato gli scritti di filosofia politica di Strauss, alla ricerca di presunti antefatti.
Leo Strauss and the America Right s'intitolava per esempio un volume della studiosa canadese Shadia B. Drury, apparso nel 1997, in cui il Nostro viene descritto come interprete di un esoterismo politico che vorrebbe riservare la verità, pericolosa per le masse, solo a una ristretta cerchia di prescelti.
Con la fine dell'era Bush, anche la curiosità mediatica per Strauss si è affievolita. Che il trumpismo contemporaneo si possa decifrare a suon di manuali di filosofia sembra poco probabile, e così anche Leo Strauss e i suoi colleghi possono riguadagnare la tranquillità delle biblioteche.
Nato in una famiglia ebraica a Kirchhain, in Assia, nel 1899, Strauss fu costretto all'emigrazione dall'avvento del nazismo. Tutta la sua vita, e una parte fondamentale del suo pensiero, si basano sul rapporto intellettuale con il giudaismo. Un legame profondo, riflessivo, esteso.
Al giovane Strauss, e ai suoi primi scritti di storia della filosofia ebraica e araba, dedica ora un bello studio Davide Monaco. Si comincia con La critica della religione in Spinoza, apparso nel 1930 per giungere a Filosofia e legge. Contributi per la comprensione di Maimonide e dei suoi predecessori, del 1935, il lavoro che segna il commiato di Strauss dal suo periodo tedesco.
Occuparsi di Spinoza significa, per uno studioso ebreo nella Repubblica di Weimar, riflettere anche sui costi e benefici dell'Illuminismo. L'opzione spinoziana, con lo smantellamento della religione tradizionale e dell'eredità ebraica, è ancora vitale o ha fallito?
Strauss non ha dubbi. In una lettera a Gershom Scholem, scrive: «Noi concordiamo sul fatto che il razionalismo moderno o illuminismo... è giunto al termine». Dove Spinoza non è riuscito, può forse soccorrerci Maimonide. Quello che Strauss suggerisce, mettendo a confronto il percorso dei due grandi pensatori, è l'inadeguatezza di un razionalismo che, dal XVII secolo in poi, ha preteso di risolvere ogni mistero dell'essere, senza poter raggiungere risultati incontrovertibili.
Più pacata, e condivisibile, gli pare invece la via della ragione filosofica premoderna, impersonata dal Mosè Maimonide, scomparso nel 1204, e attivo tra mondo ebraico e arabo. Nella ricerca maimonidea, la rivelazione religiosa non è un ostacolo alla ragione ma il suo stesso fondamento. «Il riconoscimento dell'autorità della rivelazione è il presupposto dell'attività filosofica come tale». Un ritorno ai classici, insomma, che tenga però conto delle aporie della modernità. Religione e ragione come poli in tensione, che si cercano, si trovano e si allontanano, senza mai esaurirsi completamente l'uno nell'altro.
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