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Informazione Corretta Rassegna Stampa
09.09.2018 Perché non v’è ancora soluzione al conflitto arabo-ebraico palestinese
Commento di Antonio Donno

Testata: Informazione Corretta
Data: 09 settembre 2018
Pagina: 1
Autore: Antonio Donno
Titolo: «Perché non v’è ancora soluzione al conflitto arabo-ebraico palestinese»

Perché non v’è ancora soluzione al conflitto arabo-ebraico palestinese
Commento di Antonio Donno

a destra:
la firma degli Accordi di Oslo

Nell’ultimo fascicolo di “Israel Studies” (3, Fall 2018), dedicato ai settant’anni di Israele, Yoav Gelber scrive, in un articolo dal titolo “Why There Is No Solution to the Palestinian/Arab-Jewish Conflict” (Perché non v’è soluzione al conflitto arabo-ebraico palestinese), una verità che, per opportunismo o ignoranza della storia, viene negata: la questione israelo-palestinese non avrà mai soluzione per colpa dei palestinesi, e non degli israeliani: infatti, “non è il rifiuto degli ebrei di riconoscere il movimento nazionale palestinese” a costituire l’ostacolo, scrive Gelber, bensì “il suo opposto: il rifiuto dei palestinesi di qualsiasi legittimazione del movimento nazionale ebraico”.

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Yoav Gelber

La storia di più di un secolo di contrasti è sotto gli occhi tutti: i palestinesi si sono sempre opposti al riconoscimento di Israele, perché considerano lo Stato ebraico un’ingiustizia perpetrata ai loro danni. Essi richiedono giustizia (o presunta tale), ma la giustizia, conclude Gelber, “non riconosce né concessioni, né compromessi”. Ecco, dunque, la ragione per la quale non potrà mai esservi una soluzione, a meno che Israele non sparisca o che i palestinesi accettino che “il popolo ebraico ha il diritto di essere indipendente e sovrano nella Terra di Israele”.
Questa seconda opzione, al momento, sembra impossibile.

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Efraim Karsh

Eppure, il fallimento annunciato degli accordi di Oslo del 1993 avrebbe dovuto portare alla conclusione descritta da Gelber. In realtà, come scrive Efraim Karsh in un illuminante articolo pubblicato in “Middle East Quarterly”(4, September 1, 2018), le conseguenze dei gravi errori di valutazione della buona fede di Arafat ricadono principalmente su Shimon Peres e Yitzhak Rabin. Il primo fu così entusiasta per gli esiti dell’accordo che scrisse un libro, “Il nuovo Medio Oriente”, in cui disegnava una regione finalmente pacificata, solidale, con grandi prospettive economiche. Come si è visto, si è verificato il contrario.
Perché? La ragione fu nel doppiogiochismo di Arafat, “un uomo votato alla guerra, che fece della violenza e del caos le ragioni esclusive della sua carriera”, scrive Karsh.
Ma l’aspetto inquietante della vicenda consistette nel fatto che, nonostante la doppiezza di Arafat e il suo comportamento di esultanza dopo ogni attacco terroristico che provocava morti e feriti tra gli israeliani, in evidente violazione degli accordi, Rabin tendeva ad escludere la complicità del capo terrorista palestinese in quei fatti di sangue, attribuendoli a gruppi terroristici palestinesi che non avevano accettato gli accordi.
Di più: dopo i sanguinosi attacchi terroristici dell’ottobre-novembre 1993, scrive Karsh, Rabin “accentuò tali giustificazioni, affermando alla Knesset che il terrorismo era una naturale conseguenza degli accordi di Oslo”.
Questa affermazione fu duramente contestata dall’opposizione e, nello stesso tempo, lasciò di stucco anche buona parte dei sostenitori laburisti.

Ciò nonostante, tra la popolazione palestinese si era diffuso un senso di sollievo, sostenuto dall’incremento del benessere. In una rilevazione di quegli anni, si constatò che il miglioramento della condizione dei palestinesi li stava portando a percepire Israele “come più democratico rispetto alle maggiori nazioni occidentali”. Questo non poteva che allarmare Arafat e i suoi, in quanto essi temevano che il miglioramento delle condizioni di vita del loro popolo potesse ammorbidire l’odio nei confronti di Israele, fattore decisivo per la continuazione della lotta e della distruzione dello Stato ebraico.

Ma tutto questo era anche l’esito degli atteggiamenti morbidi di Rabin nei confronti del doppiogiochismo di Arafat. Rabin chiudeva un occhio di fronte alla doppiezza del capo palestinese, e quest’ultimo approfittava del giustificazionismo di Rabin per accentuare la lotta terroristica.
Secondo Karsh, “Rabin seguiva Arafat, che considerava, in un curioso contorcimento logico, un tacito sostenitore del terrorismo e, nello stesso tempo, un uomo di pace”.
E così, nonostante il parere contrario dei suoi consiglieri militari, Rabin firmò l’Interim Agreement del 28 settembre 1995.Con quell’atto, si aprì una stagione di sangue per Israele; era la conseguenza del fatto che “il processo di Oslo fosse l’unico caso nella storia della diplomazia in cui una parte favorevole all’accordo di pace fosse a priori disponibile alla sua violazione da parte del cofirmatario”.
Una conclusione molto dura da parte di Karsh, ma indiscutibile.


Antonio Donno


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