Ripendiamo dal FOGLIO di oggi, 08/09/2018, a pag.1, con il titolo "Lo sconfitto" il commento di Giulio Meotti
Giulio Meotti Eric Zemmour
Tre titoli in italiano
Roma. “La storia della Francia scorreva nelle mie vene, riempiva l’aria che respiravo, forgiava i miei sogni; non immaginavo di essere l’ultima generazione a crescere così”. Già dalle prime righe, il nuovo libro di Eric Zemmour, Destin français (in uscita in Francia per Albin Michel), è un tripudio nostalgico. Con il saggio precedente, Le suicide français, Zemmour aveva venduto mezzo milione di copie e stregato il paese. Nelle parole di Nicolas Chamfort, “in Francia si lascia in pace chi ha appiccato l’incendio e si castiga chi ha dato l’allarme”.
E’ un po’ il destino francese di questo giornalista e intellettuale “reazionario”. Il suo nuovo libro, anticipato ieri dal Figaro, è un gigantesco rifiuto della damnatio memoriae. “René Grousset ci ha dato una lezione sull’importanza della crociata di Urbano II, che si oppone alla doxa contemporanea”, scrive Zemmour a proposito di uno dei tabù contemporanei. “Secondo lui, il Papa ha permesso all’Europa di ritardare di quasi quattro secoli l’avanzata dell’islam e prepararsi alla lenta comparsa di un Rinascimento che non sarebbe mai accaduto sotto il giogo islamico”. E cita la frase di Grousset: “La crociata non era altro che l’istinto di conservazione della società occidentale in presenza del pericolo più formidabile che avesse mai avuto”.
Zemmour ricorda al lettore che Urbano II, Pietro l’Eremita, Goffredo di Buglione e san Luigi erano tutti francesi. “Abbiamo dimenticato che, grazie a loro, siamo sfuggiti alla colonizzazione islamica e che l’Europa, radicata nella ragione greca, nella legge romana e nell’umanesimo cristiano, ha potuto elevarsi a un destino inaudito e glorioso”. Poi il monito: “Chi non conquista più è conquistato. Ancora una volta, la Repubblica si trova di fronte all’islam. Ancora una volta, la nazione ritorna ai suoi eterni demoni della divisione, dell’odio francese, della guerra civile”.
La Francia non è più un impero, non è più il centro culturale del mondo, non assimila più, non è più “la figlia prediletta della chiesa”. Per questo, molti non capiscono che diavolo vada cercando questo Zemmour. La sensazione è che sia uno sconfitto. Che resti il figlio dei “piedi neri”, i francesi fuggiti dall’Algeria decolonizzata e sbarcati con le valigie sui marciapiedi dell’Esagono.
Non solo, un ebreo berbero. “La Francia era la vita; l’Algeria, la nostalgia. La Francia, la grande nazione; l’Algeria, la piccola patria”, riassume Zemmour. Il padre parlava arabo nei café di Le Goutte d’Or, appuntandosi in un taccuino le frasi di Victor Hugo. Poco prima della sua morte disse a Zemmour: “Sono stanco di sentire in televisione ‘gli ebrei di Francia’. Non sono un ebreo di Francia, sono un ebreo francese”.
Qui c’è l’eco di future tragedie. Zemmour nel libro racconta di quando è tornato a Drancy, la banlieue parigina dove è nato. Dal parco dove ha giocato a calcio con i suoi amici al piccolo bar, tutto è rimasto uguale. Sono le persone a essere cambiate. Nel parco, Zemmour incontra ragazze velate. “Ai miei tempi, sarebbe stato impensabile”, scrive. “La Francia era, tramite le coste mediterranee, in intimo contatto con il mondo greco, romano, bizantino; tramite la costa atlantica, con i vichinghi scandinavi; tramite i Pirenei, con l’islam; tramite il Reno, con i barbari”, scrive Zemmour. Una identità che potrebbe essere mantenuta, conclude, solo da una identità e da uno stato molto forti, ma anche passando da una serie di conflitti interni. Ma chi è disposto a pagare questo prezzo, a parte il malpensante “Z”?
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