La storia di Alex Sabbadini, l'ebreo che combattè i nazisti Commento di Ariela Piattelli
Testata: La Stampa Data: 04 settembre 2018 Pagina: 26 Autore: Ariela Piattelli Titolo: «Alex Sabbadini: l'ebreo con la Leica che fotografava i documenti fascisti»
Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 04/09/2018, a pag.26, con il titolo "Alex Sabbadini: l'ebreo con la Leica che fotografava i documenti fascisti", il commento di Ariela Piattelli.
Ariela Piattelli
Unavoidable Hope: la storia di Alessandro Sabbadini. I fascisti lo cacciarono dall’esercito italiano con le leggi razziali. Tornò a combatterli da uomo libero con la divisa dell’esercito americano. Unavoidable Hope è il libro di Roger Sabbadini, che racconta la storia del padre Alessandro, «Alex» per i suoi compagni d’avventura. Alessandro aveva 23 anni quando ha lasciato l’Italia nel ’39, dopo l’emanazione delle leggi razziali fu congedato senza onori dall’esercito perché era ebreo. Arrivò negli Stati Uniti per diventare un Ritchie Boy, un soldato dell’U.S. Army addestrato ad interrogare il nemico e ricavare informazioni preziose. L’avvincente racconto di Sabbadini inizia quando il sergente Alex sbarca con gli alleati ad Anzio nell’operazione Shingle il 22 gennaio del ’44. Dalla spiaggia vede a Nettuno Villa Silvia, la residenza estiva di famiglia, oramai deserta.
La copertina
Sono passati quasi cinque anni da quell’addio a Roma, e da allora non ha più avuto notizie dei suoi cari. Alex, che già aveva preso parte allo sbarco in Sicilia e ha combattuto in Nordafrica, arriva con l’incarico di esaminare i documenti del nemico e di fotografare ogni cosa. Sono pochi i soldati muniti di macchina fotografica, sta a lui documentare tutti gli avvenimenti come un vero reporter. Nella villa di famiglia mette il quartier generale dell’intelligence e dei Documents Men, ci sono 70 chilometri e migliaia di truppe nemiche da affrontare che lo dividono da Roma e dal conoscere il destino della sua famiglia, la strada è lunga e piena di pericoli. Ciò che lo spinge è la volontà di combattere contro i nazifascisti e l’inevitabile speranza di arrivare a Roma e di ritrovare salvi i parenti. Ci vorranno lunghi mesi prima che Alessandro riesca a raggiungere la famiglia, ma la storia non finisce qui, e si sposta nel Nord Italia, dove gli alleati danno la caccia a Benito Mussolini. «Papà fu uno dei primi ad entrare a Roma a giugno del ‘44, perché la sua unità era sempre in testa. – spiega l’autore – Dei suoi famigliari non sapeva nulla, e quando li riabbracciò fu un momento pieno di emozione. Dopo Roma andò a combattere al Nord, gli americani volevano catturare Mussolini». Quando Alex arriva a Gargnano, sul Lago di Garda, Mussolini era già in fuga. Entra per primo nel quartier generale del dittatore in Villa delle Orsoline. «Alex e i Documents Men arrivarono davanti alla scrivania di Mussolini. Era perfetta, intatta, c’erano oggetti personali, fotografie, una montagna di documenti e un tagliacarte. In genere i nemici sapevano distruggere i documenti prima della fuga, ma Mussolini non ebbe tempo».
Sta al sergente Sabbadini e alla sua squadra studiare e catalogare tutto il materiale raccolto. Nell’album del veterano ci sono le fotografie delle scatole traboccanti di documenti di Mussolini: «Alex aveva tutto il necessario per un soldato, ma la sua arma più importante era la Leica con la quale ha documentato ogni cosa». Assieme al racconto della storia di Alessandro Sabbadini, nel libro c’è il ritratto di una famiglia ebraica italiana. «Volevo raccontare la storia della mia famiglia e del coraggio di chi l’ha salvata. Dopo la guerra papà tornò a vivere negli Stati Uniti. Come molti veterani della Seconda guerra mondiale, era un uomo modesto, e non voleva parlare della sua esperienza da soldato. Un giorno trovai una grande scatola, con un album fotografico titolato War As I Knew It, tantissimi documenti, e l’uniforme dell’esercito. Lui aveva già 80 anni, ho preso una telecamera e l’ho intervistato per sei ore». È così che Roger Sabbadini ha scritto il libro, «che è anche la storia degli ebrei italiani in quel periodo – conclude – perché qui in America, come in altri Paesi, sono in pochi a conoscerla».
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