Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 25/08/2018, a pag.11, con il titolo "L'Iran sfrutta l'arma demografica per controllare il Medio Oriente" l'analisi di Giordano Stabile sulle minacce espansionisthe in tutto il Medio Oriente da parte dell'Iran.
E' la lotta fra i paesi sunniti, uniti nella Coalizione voluta da Trump nell'incontro di Riad (che ha cambiato l'atteggiamento di questi paesi arabo-islamici nel confronti di Israele) e quelli sciiti, controllati dall' Iran, al centro del caos mediorientale, il grande problema che le democrazie europee non hanno il coraggio di affrontare. Più facile attaccare Trump sul piano personale che raccontarne con rispetto della verità dei fatti le iniziative poltiche.
Giordano Stabile
Bashar al-Assad si prepara a dare l'assalto a Idlib e a suggellare la vittoria del regime, e del «fronte sciita», nella guerra civile in Siria. Ma 7 annidi battaglie e distruzioni, 400 mila morti e 5 milioni di profughi, hanno cambiato per sempre il volto del Paese. Anche dal punto di vista delle divisioni settarie. In Siria, molto probabilmente, gli arabi sunniti non sono più la maggioranza, e i cambiamenti coinvolgono tutta la regione del Levante, il blocco che include Libano, Giordania, Siria e Iraq. È quella che il ricercatore dell'Hoover Institution Frabrice Balanche ha definito un lavoro di «ingegneria demografica» che «sta cambiando il Medio Oriente» e «può portare al rovesciamento» del rapporto fra i diversi gruppi religiosi «a favore del corridoio iraniano e degli sciiti». Teheran ha ora governi amici a Beirut, Damasco e Baghdad, ma ha anche il problema che le popolazioni sciite sono minoranza nel Levante, dove per lo meno fino al 2011 gli arabi sunniti erano oltre il 60%. Le guerre civili in Iraq e Siria hanno però cambiato questo dato, soprattutto con l'esodo di milioni di sunniti. E ora l'Iran sta cercando di rafforzare il suo «ponte di terra» dagli altipiani iranici al Mediterraneo, con strisce sempre più ampie a maggioranza sciita, o dove le varie minoranze (cristiani, drusi) assieme agli sciiti controbilanciano i sunniti. Il Levante, rispetto ad altre aree arabe, si contraddistingue per l'estrema frammentazione etnica e soprattutto settaria, una delle ragioni del suo fascino. Nel 2004, prima delle guerre civili siriana e irachena, gli sciiti «duodecimani» erano il 34% della popolazione complessiva di Libano, Siria e Iraq, contro il 41% degli arabi sunniti, che però nella sola Siria erano la netta maggioranza, il 65%. I cristiani erano il 10%. Da allora due fenomeni hanno stravolto l'equilibrio. L'esodo di almeno i due terzi dei cristiani iracheni e la fuga della Siria di 5 milioni di rifugiati. Meno cristiani Il peso complessivo dei cristiani si è quindi ridotto ma il dato più sconcertante, secondo un altro ricercatore, Micheal Izadi della Columbia University, è che ora gli arabi sunniti non sono più la maggioranza in Siria, in quanto scesi a poco meno del 49 per cento. Gli alawiti, la setta sciita degli Assad, sono invece passati dall'11 al 17%. Sono rimasti stabili i cristiani al 9%. Il blocco che sostiene il regime è così oggi molto più forte perché comprende anche drusi e altre sette minori. C'è anche una importante componente curda, in maggioranza sunniti, ma i curdi siriani, per lo più laici, non hanno mai avuto un atteggiamento ostile nei confronti del governo. Il raiss può così contare su una maggioranza etnico-religiosa a suo favore. La guerra ha generato enormi spostamenti di popolazione e aperto il terreno all'ingegneria demografica. Anche i gruppi ribelli, quando hanno conquistato ampie fette di territorio, hanno cacciato le minoranze ostili. Ma alla fine è il regime ad aver avuto la meglio e cristallizzato la situazione, dove ha potuto. Il Libano, dove gli sciiti sono ora oltre 30%, e la Siria Occidentale formano ora un blocco molto più omogeneo, e più fedele ad Assad. La partita però è ancora aperta. Il futuro ritorno di milioni di sfollati, i cambi di natalità fra le diverse sette, potranno cambiare di nuovo la distribuzione etnico-settaria. Il ponte di terra iraniano è ancora molto fragile.
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