Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 21/08/2018, a pag. 21 con il titolo "Morto Uri Avnery pioniere del dialogo con i palestinesi", l'articolo di Elena Loewenthal, preceduto dal commento di IC.
Nella sua lunga vita votata alla politica, Uri Avneri può essere preso ad esempio dai contemporanei pacifisti che ne hanno continuato l’opera. Nella Guerra di Indipendenza (1948), quando la sopravvivenza di Israele era tutt’altro che garantita, Avneri imbracciò le armi per sconfiggere il nemico che minacciava anche la sua vita. Quando fu chiaro che la sicurezza era in buone mani, laburiste e non, dimostrando nei fatti di essere in grado di salvaguardare l’intero paese, Avneri divenne un partner del terrorismo, iniziato con Arafat e proseguito con i successori. Nel suo ultimo anno ha potuto permettersi di criticare il comportamento dell’esercito, da chi dava gli ordini all’ultimo soldato che le eseguiva, durante il tentativo di invasione del Paese al confine con Gaza. Sapeva che la sua vita sarebbe terminata in ospedale israeliano e non affogato nel mare mediterraneo, come continuano a minacciare i terroristi di Hamas, con la complicità dei ‘moderati’ di Abu Mazen. Negli anni ’60 uscì in italiano, tradotto in tutto il mondo, un suo libro dal titolo “Israele senza sionisti” (Laterza ed. con la prefazione di Antonio Gambino, suo degno compare) che divenne il breviario non solo della sinistra, perchè influenzò non poco quegli ebrei della diaspora che potevano così avere un ‘padre nobile’ israeliano da citare.
Ecco l'articolo:
Elena Loewenthal
«Teoricamente i miei ideali hanno ottenuto una vittoria schiacciante, nella pratica sono stati sconfitti»: Uri Avnery, mancato ieri a Tel Aviv a 94 anni, riassumeva così la sua lunga esistenza. Il fondatore del «Gush Shalom», il «blocco della pace», giornalista e attivista costantemente al fianco della causa palestinese, era nato con il nome di Helmut Ostermann in Germania nel 1923, in una famiglia della buona e colta borghesia ebraica che quando lui aveva dieci anni ebbe la lungimiranza di rifugiarsi nella Palestina sotto Mandato Britannico.
Uri Avnery con Yasser Arafat
Diventato Uri Avnery, a quindici anni aderì all’Irgun, il movimento sionista revisionista guidato da quello che era allora il suo idolo, Zeev Jabotinsky. La sua carriera politica e di militanza intellettuale si nutrì di tante esperienze sul campo: combatté nella guerra d’Indipendenza, nel 1948-49 – «ero attivista della pace prima della guerra, ma la guerra era una questione esistenziale, di vita o di morte». Ne uscì con la consapevolezza profonda che dall’altra parte del fronte, e al di là degli eserciti dei Paesi arabi, c’erano i palestinesi: era con loro che andava costruita la pace. Avnery fu tra i primi a formulare l’istanza politica della creazione di uno stato palestinese, che portò avanti lungo tutta la sua carriera. Fu tra i primi israeliani a entrare in contatto con l’Olp: incontrò Arafat già nel 1974 e anche nel 1982, durante la prima guerra del Libano. La sua carriera politica e parlamentare fu alquanto movimentata, negli anni fondò partiti e schieramenti, si confrontò con accuse di tradimento, nel 2003 fece persino da «scudo umano» ad Arafat, stabilendosi a Ramallah per un certo tempo.
Militante inflessibile
In fondo, tutta la sua vita, la sua militanza, quel suo modo inflessibile di coltivare con la politica un’utopia di pace – che fosse un’utopia lo sapeva bene anche lui – si può ricondurre a quel carattere yekke – in ebraico sta per «crucco» – che si era portato con sé fuggendo bambino dalla Germania. Avnery era il testimone di un Israele che non c’è più, di un mondo duro e puro che sognava il futuro lavorando e combattendo per costruire una società perfetta, dove avrebbe regnato una pace perfetta anch’essa. Come tutti i pionieri che hanno dato corpo al sogno sionista, e al di là delle sue posizioni non di rado provocatorie ma per questo sempre stimolanti, anche Avnery era una radicale perfetto. Ma in Israele così come altrove, non è più tempo di aut/aut alla realtà: come dice Amos Oz, che è innamorato della pace non meno di quanto lo fosse Avnery, è ora di pensare che il compromesso non è indice di debolezza ma sinonimo di vita. E prima ancora, strumento indispensabile per la convivenza.
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