Riprendiamo dal FOGLIO di oggi, 14/08/2018, a pag.III, con il titolo "La nemesi liberal" il commento di Giulio Meotti
Giulio Meotti
La sua stessa vita era stata un monumento al multiculturalismo. Viaggiava con un passaporto inglese di cui andava orgoglioso, aveva il lignaggio culturale di una famiglia di bramini dell’Uttar Pradesh ma era nato a Trinidad nei Caraibi, aveva studiato a Oxford, era di casa a Manhattan, aveva sposato in secondo nozze una pakistana molto raffinata, scrisse del naufragio delle giovani nazioni decolonizzate e – come Joseph Conrad – V. S. Surajprasad Naipaul era uno sradicato che aveva scelto l’Inghilterra come paese d’adozione e di elezione. Evelyn Waugh lo chiamava “quel negretto intelligente”. “Non saprei esattamente dove sono le mie radici”, diceva di sé Vidiadhar Surajprasad Naipaul, “Vidia” per gli amici, il Premio Nobel per la Letteratura scomparso a 86 anni. Naipaul era il “laureato” che ha fatto più incazzare il ceto letterario e culturale. Gli intellettuali terzomondisti lo accusavano di “snobismo” per aver chiesto alla consegna del Nobel di essere chiamato “scrittore inglese nato a Trinidad” e perché non si lagnava mai del colonialismo; la comunità afroamericana era furiosa con lui per la frase “non c’è niente di più autodistruttivo del razzismo dei neri”; i benpensanti fuggivano di fronte al suo scetticismo senza scampo e ai suoi romanzi come “Guerrillas”, ambientato in un’isola delle Antille e che ha come protagonisti una radical chic, Jane, che finisce violentata e assassinata e un progressista vile, Roche, che fugge inseguito dalla sua stessa viltà. La sua esperienza a Oxford lo spingerà a chiedere la chiusura dei dipartimenti letterari delle università del Regno Unito. “Gli accademici sono cattivi”, si lamentò Vidia. “Pubblicano i libri per questi corsi e danno l’illusione di una grande popolarità. Ma sono solo piccoli libri di testo che riempiono le borse degli studenti”. Fu spietato con tanti scrittori britannici, come E.M. Forster. Naipaul si diceva “nauseato” dal suo “Passaggio in India”. “Di quel paese, Forster non ha visto né capito niente. L’unica volta che vi è andato, nel 1921, ha frequentato esclusivamente gli inglesi, gli indiani di ceto medio, i giovani giardinieri che tanto gli piacevano. Al popolo non ha osato avvicinarsi”. O la volta che se la prese con il Partito laburista, che a suo dire aveva “imposto una cultura plebea” in Inghilterra. Facile capire perché Naipaul non avesse mai attirato i favori di una sinistra molto politically correct, mentre una certa destra tronfia lo arruolò a man bassa, nonostante Vidia fosse un inclassificabile. Non la presero bene le femministe la volta in cui Naipaul disse: “Le prostitute offrono conforto e sono grato per i loro servizi”. Non era chiaramente fatto per il tempo del #MeToo. Come quando disse che le scrittrici indiane, fenomeno letterario britannico in grande ascesa, erano “banali”. “La banalità mi irrita”, diceva Vidia. “La mia vita è breve. Non riesco ad ascoltare banalità. Questa cosa del colonialismo, questa cosa dell’oppressione di genere, la stessa parola ‘oppressione’, mi affatica”. Nel 2008 pronosticò la fine della letteratura: “Tutto è stato detto e fatto negli ultimi duecento anni. La narrativa ha esaurito tutte le sue possibilità. Non si può fare altro che ripetere. La narrativa credo sia proprio pronta a uscire di scena”.
V. S. Surajprasad Naipaul
“Vidia Naipaul è stato il più grande romanziere in lingua inglese nella seconda metà del XX secolo” ha scritto ieri il Telegraph. “Ma nella nostra cultura letteraria appiattita, che sembra essere un ramo dello spettacolo, era un uomo a parte. Come Amleto, Naipaul è morto con tutti gli onori. Era un Nobel. Ma i grandi scrittori come lui non hanno bisogno di una raccomandazione ufficiale. Indipendente, contrariato, se ne andò per la sua strada, senza appartenere a nessun gruppo, senza prestare attenzione a ciò che era considerato alla moda. Buon per lui. Si divertiva a deridere le leggi liberal, pensava di saperne di più”. In un lungo saggio pubblicato sull’Atlantic nel 2002 a firma di Georffrey Wheatcroft si legge che “Naipaul non era certamente un liberal e qui sta la sua importanza”. Lo scrittore-bramino ci ha sbattuto in faccia quelle verità indigeste come pochi altri grandi scrittori hanno avuto il coraggio di fare. Certamente non i vari Dario Fo, Toni Morrison, José Saramago, Günter Grass, John Coetzee, Elfriede Jelinek, Harold Pinter, Doris Lessing, Alice Munro, Patrick Modiano e gli altri Nobel della Letteratura. Nel tempo dello choc culturale e di civiltà, soltanto il Nobel delle Antille si è sporcato davvero le mani. Per questo Pascal Bruckner nel suo libro più noto, “Il singhiozzo dell’uomo bianco”, ha definito Naipaul “l’anti-Sartre”, esaltandolo come l’opposto del celebre intellettuale francese ammaliato dai dannati della terra e dalla dannazione della cultura occidentale. Naipaul è stato l’unico grande letterato col blasone del Nobel ad aver detto la verità sul mondo islamico (gli si avvicina, forse, il nigeriano Wole Soyinka). Già nel 1991, in una lectio al Manhattan Institute di New York, Naipaul rifiutò l’uso della parola “fondamentalismo” per l’islam, parlando piuttosto di “revival religioso”, raccontando la tabula rasa operata dai suoi ideologi più severi. “La Persia aveva un grande passato; era stata il rivale nei tempi classici della Grecia e di Roma” disse Naipaul. “Ma non lo crederesti in Iran nel 1979; per gli iraniani, la gloria e la verità erano iniziate con la venuta dell’islam. Il Pakistan è uno stato musulmano molto nuovo. Ma la terra è molto antica. In Pakistan c’erano le rovine delle antiche città di Mohenjo-Daro e Harappa. C’era un dipartimento archeologico, ereditato dai tempi britannici, che si occupava dei siti. Ma c’era, soprattutto con la crescita del fondamentalismo, una corrente contraria. Alle rovine delle città, mi disse uno scrittore, dovrebbero essere appese le citazioni del Corano, dicendo che questo era ciò che accadde ai miscredenti. La fede aveva abolito il passato”. In quell’occasione, Naipaul esaltò l’oc - cidente e “lo straordinario tentativo di questa civiltà di estendersi al resto del mondo”. Gli iraniani lo disprezzavano quanto Salman Rushdie, perché Naipaul riversò i suoi versetti satanici in “Among the Believers” (“In mezzo ai credenti”), straordinario resoconto e viaggio attraverso l’islam contemporaneo, in cui osò definire l’ayatollah Khomeini “il prete che impicca, il giudice boia”, mentre giornali e letterati erano quasi tutti impegnati a lisciare il pelo della rivoluzione iraniana. “La crudeltà del fondamentalismo islamico è che permette solo a un popolo – gli arabi, il popolo originario del Profeta – di avere un passato e luoghi sacri” scrisse Naipaul. “Questi luoghi sacri diventano i luoghi sacri di tutti i convertiti, che devono sbarazzarsi del proprio passato. A loro non si chiede altro che una fede purissima: islam, sottomissione. La forma più intransigente di imperialismo”. Il professor Edward W. Said, intellettuale palestinese di rango che aveva trovato casa alla Columbia University e nei dipartimenti di orientalistica occidentali, su The Nation chiamò Naipaul “un avvoltoio” pronto a gettarsi sugli errori del post colonialismo, piuttosto che denunciare quelli dell’imperialismo. Said dirà di Naipaul che è “un informatore nativo”, “un testimone dell’oppressione occidentale”, insomma, un colonialista a sua volta. Nel 2003, Naipaul disse di non credere all’irenismo ecumenico professato dai colleghi di Nobel: “Non è possibile lavorare insieme per arrivare alla pace. Il mondo è troppo pieno di odio e questo Bin Laden rappresenta solo l’odio religioso. Bin Laden viene da un paese chiamato Arabia Saudita, un paese dove sono abituati all’idea della conquista del mondo, all’idea di fare il deserto, di distruggere le opere nate dalla civilizzazione, di distruggere le arti. Sono solo interessati alla diffusione delle loro particolari credenze religiose. E’ una terribile forma di crudeltà senza attenuanti, è pura malvagità”. Quando le bombe islamiste esplosero nella sua Londra multikulti, il premio Nobel per la letteratura intervenne nel dibattito sul multiculturalismo, lanciando un attacco frontale all’islam radicale e alle madrasse, le scuole coraniche. “Ai seguaci più poveri della fede araba in diversi paesi è stato fatto credere che il vero e proprio sostituto dell’istruzione è la fede stessa’”, disse Naipaul dalla sua casa nello Wiltshire. “Alla fin fine nelle inutili scuole religiose dove il libro sacro è l’uni - co testo di studio, da imparare a memoria, i ragazzi spesso finiscono con l’essere preparati da uomini semianalfabeti con la barba, che hanno una visione del mondo a metà o un quarto, per diventare soldati della fede, per combattere guerre di religione ovunque, per essere macchine per uccidere e bombe umane: la scorciatoia per l’affermazione, evitando la sofferenza e la vergogna di un mondo troppo difficile da gestire”. Non era davvero poco per un principe del pantheon mondiale delle lettere. Per questo, quando gli venne assegnato il Nobel, l’egiziano Naguib Mahfouz, anche lui Nobel, lo attaccò duramente: “Perché mai quest’anno gli accademici svedesi hanno deciso di premiare uno scrittore che umilia l’islam? L’offesa a una religione non era motivo sufficiente perché la giuria lo scartasse?”. E quando a Oslo gli venne assegnato il Nobel per la Letteratura, il quotidiano internazionale arabo Al Hayat accusò lo scrittore anglo-indiano di “ostilità cronica” nei confronti dell’islam. Anche sull’Africa, Naipaul si era preso gli strali progressisti. “Naipaul descrive un continente primitivo e ossessionato dalla messa in pentola degli animali da compagnia”, commentò il Sunday Times sotto il titolo “Il razzista VS colpisce ancora”. Autore della stroncatura è Robert Harris, scrittore per il quale Naipaul addirittura “denigra” un continente abitato da un miliardo di persone. Naipaul venne addirittura paragonato a Oswald Mosley, il fondatore del partito fascista britannico. Derek Walcott, altro poeta laureato dell’area caraibica, in una poesia lo definì “Mr Nightfall” (signor Crepuscolo) e lo considerava alla stregua di un razzista, per alcune affermazioni poco felici sui neri.
“La guerra religiosa è alla base dell’islam”, aveva detto Naipaul dopo l’attentato alle Twin Towers. “Il fanatismo non deve essere compreso, ma punito. Quella è gente che non legge molto, è contro la civiltà. Vogliono portare ovunque il silenzio del deserto. In Afghanistan hanno distrutto i vecchi monumenti, hanno fatto tabula rasa della loro storia. Nei paesi dove fanno regnare la loro fede sono riusciti a far regnare quel silenzio”. Tesseva l’elogio della civiltà occidentale, perché diceva che “una civiltà che ha fatto il mondo non può morire”. Qualche anno fa, il Nobel anglo-indiano decise di non presentarsi a Istanbul dove era atteso come ospite d’onore al “Parlamento degli scrittori europei”, creato da Orhan Pamuk e Saramago e che quell’anno aveva voluto proprio la città turca capitale europea della Cultura. C’erano state violenti proteste di alcuni scrittori contro “l’islamofobo Naipaul”. Il poeta e filosofo Hilmi Havuz guidò questa rivolta. “La tolleranza è per gli accenti critici non per gli insulti”, aveva detto al quotidiano Hurriyet. Un’altra scrittrice, Cihan Aktas, aveva detto di Naipaul: “Il disgusto sui musulmani che traspare dai suoi libri è evidente”. Contro l’invito a Naipaul anche il cognato del famoso poeta Hikmet, il giornalista Refik Erduran. L’ultima uscita pubblica di Vidia sull’islam era stata nel 2015, durante la grande cavalcata dell’Isis in Siria e Iraq, quando lo Stato Islamico ammassava corpi nelle strade delle capitali europee. “Immagina - te un mondo in cui un giovane uomo è rinchiuso in una gabbia, inondato di benzina e dato alle fiamme per essere bruciato vivo. Immaginate un bambino che a distanza ravvicinata spara a un uomo inginocchiato con le braccia legate dietro la schiena. Immaginate lo spettacolo di un centinaio di decapitazioni. Immaginate uomini gettati nel vuoto, accusati di essere gay. Sì, tutte queste scene potrebbero aver avuto luogo nel mondo medievale, ma si tratta di scene di ieri, di oggi e di domani nel nostro mondo”. Si apriva così il poderoso saggio sull’islam che il Premio Nobel della Letteratura scelse di consegnare ai giornali inglesi. Il Nobel scrisse che l’islamismo “nega il valore e addirittura l’esistenza di civiltà che hanno preceduto le rivelazioni del Corano. Non c’è spazio per il passato preislamico”. Naipaul sintetizza questo fanatismo come “l’idea che la fede abolisce la storia”. Da qui la determinazione a negare, eliminare e cancellare il passato tramite la distruzione dell’arte, dei reperti e siti archeologici di grandi imperi.
“Distruggere il toro alato fuori delle fortificazioni di Ninive soddisfa lo stesso impulso riduttivo dietro la distruzione da parte dei talebani dei Buddha in Afghanistan” scrive Naipaul. “L’Isis è proteso in un olocausto contemporaneo, l’omicidio di sciiti, ebrei, cristiani, copti, yazidi. Ha spazzato via le popolazioni civili di intere regioni e città. L’Isis potrebbe abbandonare l’etichetta di ‘Califfato’ e farsi chiamare ‘Quarto Reich’”. Con una differenza: “Se i nazisti pretendevano di essere i custodi della civiltà, in quanto hanno rubato opere d’arte per preservarli, l’Isis distrugge tutto ciò che nasce dall’impulso umano di bellezza”. Naipaul non lesinò bordate a quei leader europei che avevano negato il carattere islamico del terrorismo, “i politici di Europa e America, tra cui David Cameron, Barack Obama e Francois Hollande, che dopo ogni oltraggio islamista lo descrivono come una frangia lunatica”. Naipaul sostiene che nulla possa far cambiare la mente ai musulmani europei radicalizzati. “L’islamismo è semplice. Ci sono delle regole da obbedire, una jihad contro la civiltà, un paradiso dove andare da martire. L’arte non può distrarvi, nessuna ambivalenza offerta dalla civiltà ‘occidentale’, nessuna fedeltà al paese che ti ha dato un libero istruzione e prestazioni sociali. Una pistola, una preghiera e la semplicità di una caverna. Ecco perché partono (i volontari dell’Isis, ndr). Sono dei volontari della morte”. Mentre Dario Fo ballava attorno alle Due Torri che venivano giù e condannava la “speculazione finanziaria”, mentre Saramago allestiva il suo grottesco processo a Dio e tutti gli altri Nobel perdevano la penna e la lingua, il bramino Naipaul iniziò a spiegare a noi occidentali che non c’è soluzione di mezzo fra la civiltà e i suoi nemici. “Negli ultimi tre o quattro secoli dai tempi di Cartesio, Leibniz e Newton, l’islam è rimasto congelato nelle rivelazioni del Corano e degli Hadith del VI secolo. L’Isis deve essere visto come la più potente minaccia per il mondo dai tempi del Terzo Reich. Il suo annientamento militare come forza anti-civiltà deve essere oggi l’obiettivo di un mondo che tiene alle proprie libertà ideologiche e materiali”. In un occidente in cui gli scrittori si sono messi a pettinare le bambole, Vidia Naipaul mancherà molto.
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