Riprendiamo dalla STAMPA di oggi, 11/08/2018, a pag.5, con il titolo "Ecco perché bisogna escludere la Turchia dalla Nato", l'analisi di Bernard-Henri Lévy.
Bernard-Henri Lévy
Le relazioni degli Stati Uniti con la Turchia attraversano la crisi più grave della loro storia. Erdogan reclama a Trump la testa di Fethullah Gülen, il suo nemico giurato, che vive negli Stati Uniti e che considera responsabile del colpo di Stato del luglio 2016.
Trump, da parte sua, pretende la liberazione di un pastore evangelico, Andrew Brunson, incarcerato sotto il fallace pretesto di essere stato, immischiato nel colpo di Stato.
Il presidente Usa agita l’arma di sanzioni economiche come quelle già prese, a partire dalla guerra in Ucraina, contro gli oligarchi russi. Il leader turco risponde evocando il sequestro dei beni in Turchia, ovviamente inesistenti, di due membri eminenti dell’amministrazione americana.
Gli animi si surriscaldano, piovono le accuse più strambe, circolano insulti. E si assiste, in effetti, a un combattimento di galli senza precedenti fra i presidenti di due Paesi membri della Nato.
Erdogan spinge all'interno della Nato il cavallo di Troia turco-islamista
Le condizioni dell’economia turca, la sua dipendenza nei confronti degli investimenti stranieri, il crollo della sua moneta nazionale lasciano presupporre che Erdogan cercherà, presto o tardi, i mezzi per rompere quest’ingranaggio e salvare la faccia. E forse, quando questi elementi emergeranno, i due bulli, drogati al testosterone e che spesso hanno esagerato, nel passato, la loro fraternità di «uomini forti», attaccati alla «difesa del proprio Paese» e che riconoscono nell’«America First» l’uno e nella «Nuova Turchia» l’altro le due figure avverse ma gemelle di uno stesso populismo, metteranno in scena una riconciliazione spettacolare tipo quella con Kim Jong-un.
Resta che questo psicodramma avrà rivelato un malessere più profondo e del quale era ora che prendessimo collettivamente coscienza.
Bisogna ricordarsi che al momento in cui la guerra contro l’islamismo radicale diventava la priorità assoluta delle democrazie, la Turchia e i suoi servizi facevano a dir poco il doppio gioco: ne è stata testimone, nel gennaio 2014, qualche mese prima della battaglia di Kobane, la fornitura d’armi, debitamente documentata dalla stampa, a gruppi vicini ad Al-Qaeda e poi all’Isis.
Bisogna ricordarsi, quattro anni più tardi, nel Nord-Est della Siria, di quell’offensiva secondo le regole condotta dagli aerei e dall’artiglieria turchi contro l’enclave curda di Afrin, che era, come quella di Manbij, vicino ad Aleppo, sotto la protezione occidentale: l’America ha lasciato fare. Ha accettato di veder sacrificati i suoi più solidi e valorosi alleati nella regione. E ha scelto questo momento per annunciare il ritiro delle proprie truppe.
Recep Tayyip Erdogan
Bisogna sapere che Erdogan, fra queste due date, come per meglio indicare dove lo stesse ormai portando il suo sogno neo-ottomano, non ha cessato di mostrarsi, ora con Putin, ora con Rohani, perfino con i due, come nell’aprile 2018, ad Ankara: questa foto di famiglia, all’apertura di un vertice in cui si andava a discutere di un piano d’abbordaggio definitivo della sfortunata Siria, era come uno sputo in faccia a tutti gli amici della democrazia e del diritto.
Ancora bisogna sapere che le relazioni con Putin non si limitano ahimè solo a queste apparizioni simboliche, perché il novello sultano, che aveva già ottenuto dal Cremlino la tecnologia nucleare per permettergli di produrre molto rapidamente il 10% del fabbisogno energetico del suo Paese, ha deciso di acquistare a Mosca delle batterie di difesa antiaerea S-400. Gli esperti sanno che potrebbero porre dei problemi di compatibilità con i sistemi militari della Nato. Gli Stati Uniti l’hanno ricordato. Hanno fatto sapere che questa provocazione comprometterebbe la consegna dei caccia F-35 promessi dal Pentagono. Ma Erdogan si è intestardito.
Ed evoco giusto per la memoria il fatto che, la settimana scorsa, a Johannesburg, si è tenuto il decimo summit dei Brics, dove lo stesso Erdogan ha avuto il singolare privilegio di essere ricevuto come «invitato d’onore» e dove ha preso in considerazione, molto ufficialmente, un ravvicinamento strategico con la Cina di Xi Jinping e, ancora una volta, con la Russia di Putin.
Ho annunciato, in «L’impero e i cinque re» («L’empire et le cinq rois», Grasset), questa lenta deriva del Paese di Mustafa Kemal. Ho descritto il sistema di affinità di questi leader illiberali, che sognano di ricostituire uno il Califfato; l’altro la Cina degli Han, dei Ming e dei Qing; l’altro, l’impero eurasiatico; l’altro ancora, il regno dei sovrani achemenidi e persi. E lui, dunque, Erdogan, l’antico impero del Turan.
Ebbene, ci siamo arrivati.
Forse questo processo di ricomposizione geostrategica sta arrivando al termine. In quel caso bisognerà porsi, in modo calmo ma inevitabile, la questione delle nostre relazioni con un grande Paese, ricco di una grande civiltà, ma che non sarà più un nostro amico, né un nostro alleato.
Un tempo ci si interrogava sull’opportunità di far entrare o meno la Turchia in Europa. Ma quel giorno il nuovo problema da porsi sarà se non diventi opportuno di farla uscire dalla Nato.
Si può, con una capitale che sta stringendo dei partenariati strategici, che la ravvicinano a potenze che sono tra le più ostili, condividere i segreti militari da cui dipende la nostra sicurezza collettiva? Si può a proposito di un responsabile che si sta opponendo a noi sulla maggior parte dei fronti, in cui si gioca l’avvenire della democrazia come regime e civiltà, continuare a dire, come Trump l’ha fatto, l’11 luglio, un mese dopo la famosa foto scattata al G7 e dove lo si vedeva, seduto, tenere testa alla signora Merkel e agli altri europei: «Solo Erdogan fa bene il suo lavoro»?
La crisi va oltre, di gran lunga, le querelle di ego tra falsi duri che si aggrediscono a colpi di mento. È venuto il momento di esigere, ben al di là della liberazione di un pastore evangelico preso in ostaggio, l’esclusione della Turchia dall’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.
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