Che il futuro degli ebrei si chiami Israele è un fatto ormai compiuto. Consegnato alla storia, ma sempre vivo e presente nella storia dell'ebraismo contemporaneo, il sionismo continua a trasmettere alle nuove generazioni i valori che lo hanno reso forse l'unico "ismo" vincente nel secolo scorso. Gli altri "ismi", nazismo,fascismo,comunismo, dopo aver lasciato solo rovine al loro passaggio, hanno concluso negativamente il loro conto con la storia,quella con la esse maiuscola.
Il sionismo,al contrario, ha creato una nazione,ha riunito un popolo prima disperso in ogni parte del mondo, ha ridato dignità e futuro a milioni di persone. In pace o in guerra, Israele guarda all'eredità di Theodor Herzl come ad un bene prezioso che non ha più bisogno di etichette per essere accettato.
David Vital, lo storico del sionismo per eccellenza, liquida il cosiddetto post-sionismo con un sarcastico "nonsense". Lui, che ha scritto una monumentale storia del sionismo,ancora oggi il testo di riferimento per gli studiosi, non si è mai ritenuto altro che "sionista".
Come può esserlo chi vive in Israele, dove l'aspisrazione al ritorno è un concetto di storia scolastica e niente di più. Differentemente dagli ebrei della diaspora, i quali, malgrado l'esistenza di un legame anche profondo con Israele, continuano a vivere separatamente il loro rapporto con la terra dei padri.
Fu un libro di David Vital, uscito all'inizio degli anni novanta, a gettare lo scompiglio nel dibattito diaspora- Israele.
Si intitolava, non a caso, "Il futuro degli ebrei" (in italiano da Giuntina editore) e la tesi, semplice ma diretta, riaprì ferite mal cicatrizzate.
Vital,questa è la sua visione, non intravede per gli ebrei un futuro nella diaspora. Il successo del sionismo nella creazione di uno stato porta inevitabilmente con sè un declino delle comunità ebraiche fuori da Israele, un declino che porterà quegli stessi ebrei ad identificarsi come tali solo grazie ad un riconoscimento che gli verrà dai paesi nei quali vivono, e non invece da una propria consapevolezza o dal sentire l'ebraismo come una eredità.
Essere ebrei diventerà come essere cittadini qualunque, essendo l'unica differenza la diversità di religione. Il prezzo di questa condizione, apparentemente più che normale, è la perdita dell'appartenenza al proprio popolo. E, in un futuro forse non lontano, della possibilità di ricongiungersi ai fratelli nella terra d'Israele a causa della inevitabile assimilazione.
Vital, profondo studioso di Herzl, non poteva non ricordarne l'insegnamento. Di fronte al colonnello Dreyfus,processato (innocente) per alto tradimento, ma umiliato da un processo e da una nazione che vedeva il lui non l'ufficiale ma l'ebreo traditore, aveva capito che l'Europa soffriva di un male incurabile, l'antisemitismo. Per uscirne gli ebrei dovevano essere liberi e responsabili della loro storia in una terra loro, dove poter riedificare il loro stato. Hitler e la "civile" Europa dopo nemmeno cinquant'anni dovevano purtroppo dargli ragione.
Herzl, con il suo profetico "Judenstaat", voleva risolvere una volta per tutte la millenaria tragedia di un popolo che tutto possedeva per definirsi tale tranne uno stato.
E' dunque la realtà di Israele che Vital propone a chi ne è ancora lontano. Se il sionismo ha raggiunto il suo scopo cinquant'anni fa con la creazione dello stato, metà dell'ebraismo mondiale vive ancora nella diaspora, in paesi nei quali il richiamo all' "anno prossimo a Gerusalemme" più che una decisione resta un buon proposito da leggere durante la cena di Pasqua. Vital ha avuto il merito, e il coraggio, di rilanciare nel dibattito intorno all'identità ebraica
la questione fondamentale dell'"alià", del ritorno a casa. Come ogni azione coraggiosa ha suscitato subito diffidenza se non ostilità. Ma la sua analisi appassionata del futuro degli ebrei ha centrato l'obiettivo, se oggi, in Israele e nella diaspora, gli ebrei vivono il loro rapporto con l'eredità del sionismo in modo non conflittuale, avendo anzi recuperato di quell'ismo vincente tutto l'orgoglio che aveva ben meritato.